Erberto Petoia: il Mezzogiorno avrà un futuro se investirà su sapere e ricerca

RECOVERY FUND E MEZZOGIORNO, INTERVISTA ALLO STUDIOSO DI ANTROPOLOGIA E STORIA DELLE RELIGIONI. La riflessione sul Meridione e l'Italia alla vigilia di un passaggio cruciale della storia. «In Irpinia pesano ancora gli effetti del terremoto del 1980, che ha prodotto uno smarrimento culturale»

Il Mezzogiorno avrà un futuro se investirà su sapere e ricerca, afferma Erberto Petoia, storico, scrittore e ricercatore, autore di numerose pubblicazioni, tradotte anche all’estero, collaboratore di Medioevo e ad altre riviste del settore antropologico e storico religioso. Originario di Sant’Andrea di Conza, Erberto Petoia è stato allievo di Alfonso M. di Nola, uno dei maggiori intellettuali del Novecento, ha collaborato per anni alla cattedra di Storia delle religioni e Antropologia culturale presso l’Istituto Orientale di Napoli e presso l’Università di Roma III. Secondo Erberto Petoia ricerca e istruzione possono sono la chiave per il rilancio dell’Italia, se saprà impiegare i fondi del Recovery Fund in questa direzione, oltre che sulle opere necessarie a colmare il divario infrastrutturale con l’Europa. Impegnato dentro e fuori il Parlamento, Erberto Petoia parla del Sud oltre gli stereotipi e i luoghi comuni che deformano la condizione sociale ed economica del Mezzogiorno. Si parla nuovamente di ‘questione meridionale’, spesso strumentalizzando rapporti di forza e una narrazione non corrispondente alla realtà. “Il Sud oggi è il simbolo della solidarietà e dell’accoglienza: da qui bisogna ripartire”, ha dichiarato nell’intervista a Nuova Irpinia.

Erberto Petoia

Professor Erberto Petoia, quale divario va colmato tra Mezzogiorno ed Europa?

“Negare il divario economico equivarrebbe a negare l’evidenza, parlare di divario culturale, invece, mi sembra assolutamente fuorviante, e più che altro strutturale nell’immaginario collettivo e derivante anche da una certa narrazione di alcuni autori, che sullo stato di arretratezza economica del Sud hanno costruito le loro fortune letterarie. Spesso il Sud, povero e arretrato è diventato un brand, un prodotto da esportare, soprattutto in un certo tipo di letteratura, e non solo narrativa, che si abbandona a compiaciute narrazioni e riproposizioni folkloriche volte a soddisfare il gusto di un determinato pubblico. Fortunatamente esiste anche una letteratura, molto più seria, e penso ad autori del calibro di Raffaele Nigro, Giuseppe Lupo, Mariolina Venezia, Carmine Abate, Franco Arminio, e per altri aspetti Vinicio Capossela – solo per citarne alcuni – i quali propongono una nuova lettura e un nuovo approccio alla riscoperta della cultura, del patrimonio tradizionale e alla descrizione del problema del Sud, prendendo le distanze da una letteratura meridionalistica edulcorata o stereotipata”.

Cosa ha caratterizzato in negativo il Sud?

“Accanto alle scelte politiche ed economiche post-unitarie un peso determinante lo ha avuto soprattutto il prevalere dell’ideologia del sudismo sul Meridionalismo, che ha caratterizzato l’attività politico-amministrativa basata sui rapporti parentali, le relazioni clientelari, le pratiche trasformistiche, dissimulando le incapacità delle classi dominanti del Sud con fantomatiche responsabilità esterne o centralistiche. Così, spesso, in cambio di un mortificante e grigio posticino di lavoro si ponevano le persone in uno stato di sudditanza non dissimile da quello preunitario, finendo per creare un habitus mentale difficile da smettere e la cui carica infrenante ha fortemente condizionato il processo democratico e di conseguenza economico”.

A chi fa comodo una narrazione di arretratezza e povertà culturale?

“Più che di comodità, parlerei di miopia e di stereotipi difficile da estirpare; vige, purtroppo, nel sentire comune ancora una visione di stampo quasi calvinista, secondo la quale a una povertà o arretratezza economica corrisponda una povertà culturale e morale. In realtà questa è un’immagine distorta, perché non credo affatto che una campagna, come quella del Nord, attraversata da file capannoni che si estendono per chilometri possa essere indice di progresso e di ricchezza culturale. Anzi, proprio in nome della ricchezza culturale credo che il nostro dovere morale sia di evitare che anche da noi accada quanto verificatosi altrove, dove un patrimonio naturale è stato letteralmente devastato, depauperato, rendendolo irrecuperabile e facendone, per usare una felice espressione di Marc Augè, dei non-luoghi. Da noi temo l’avanzata dell’eolico e lo sfruttamento delle cave”.

Quanto risulterà efficace la campagna promozionale in voga per i piccoli borghi del “piccolo ed efficiente”?

“Come, forse, non aveva voluto capire Sciascia, nella sua incomprensibile polemica sui “paesi-presepi” all’indomani del sisma del 1980 in Irpinia e in Basilicata, preservare i luoghi, le tradizioni, la cultura, l’identità, non rappresenta affatto un vagheggiamento di stampo tardo-pasoliniano, ma un dovere morale ed etico, affinché questo patrimonio materiale e immateriale possa essere inserito all’interno di un processo di innovazione e di modernità, rendendolo così un atto rivoluzionario e conseguentemente di progresso. Sull’onda della pandemia si sta cercando di rivalutare i borghi, una meta per la nuova vivibilità e a riparo dalle solitudini delle grandi città; ma già da molto tempo Franco Arminio ha posto il problema della ripopolazione dei piccoli paesi e avviato un’intensa attività in questa direzione”.

Quando si parla di processo di unificazione italiana, scatta il paragone con il processo di unificazione tedesca. Ma a 30 anni dal crollo del muro di Berlino, nonostante i massicci investimenti pubblici in sanità, infrastrutture, aumento degli stipendi e industrie, resta una sostanziale scissione fra le due Germanie. Chi e cosa costruisce l’unità di un Paese?

“La ricerca e l’istruzione sono gli unici mezzi per costruire una vera unità, e credo sia necessario anche liberarsi di quel complesso di inferiorità e demistificare la vulgata di una presunta supremazia nella qualità dell’Istruzione delle scuole del Nord, così come è già avvenuto per la sanità, che in piena emergenza ha dimostrato tutti i suoi limiti e le sue incapacità. Ma perché ciò avvenga è necessario che si ponga fine allo strazio continuo di riformucole e all’esodo e alla fuga di migliaia di giovani laureati e non, che negli anni hanno impoverito la classe dirigente del nostro paese privandolo di quelle sane energie che avrebbero potuto rappresentare anche un freno al degrado politico”.

Oggi la questione meridionale non è più un tema affrontato nei salotti del Sud che parla a se stesso, ma è tornato in Parlamento, penetra in tutti i reticoli della comunicazione e approda sui social network, dove le alterazioni potrebbero deviare gli obiettivi. Lei che idea si è fatto?

“La questione meridionale sembra aver perso il suo appeal e non è più argomento di discussione perché gli intellettuali del sud hanno abdicato e delegato la discussione del problema esclusivamente alla classe politica. Con la scomparsa della sinistra, annacquatasi in una non meglio definita sinistra riformista, è venuto meno anche il dibattito sulla questione del Mezzogiorno, e il vuoto lasciato dal crollo delle ideologie e dell’impegno civile che da sempre l’aveva contraddistinta, ha spianato, in particolar modo al sud, la strada ai vari populismi, non ultimo quello becero in felpa e in salsa lombarda”.

Spesso però accade che la cultura parli a se stessa, escludendo la possibilità di spalmare riflessioni e argomentazioni sull’attualità politica, negando la possibilità di ricadute positive sull’operato di amministratori e governanti. Perché?

“Quando la cultura diventa autoreferenziale, autocelebrativa e per pochi iniziati, essa ha ormai smesso di fare cultura, abdicando in questo modo a quella che dovrebbe essere la sua funzione. Le persone non leggono, non si informano, e con le dovute e rare eccezioni, c’è un appiattimento del dibattito, a cui si aggiungono le responsabilità dei mezzi di comunicazione, con notizie prodotte serialmente, tra cui la televisione, un tempo mezzo di formazione e di informazione, e oggi causa dell’imbarbarimento del dibattito e prona a qualsiasi forma di cialtronismo mediatico”.

Quanto della nostra cultura è andata persa o dispersa con il terremoto del 1980?

“Era già in atto, da qualche decennio, quella mutazione antropologica conseguente al processo di trasformazione da società contadina a società post-industriale, ma con il sisma del 1980 sono andati distrutti non solo interi paesi, ma anche la solidarietà di un tempo, la trama dei modelli culturali, le tecniche, i saperi, le ritualità, che per secoli avevano rappresentato un punto di riferimento certo per le nostre culture, e sulle cui macerie è nato un individualismo esasperato. E’ continuato per anni, per usare le parole di Alfonso M. di Nola, che alle nostre zone aveva dedicato attenzione e scritti in più di un’occasione sulle testate dei quotidiani nazionali, quel terremoto dell’anima, segreto ed interiore, che ha violentemente sradicato e depauperato l’uomo delle proprie certezze e sicurezze e offuscato il proprio orizzonte culturale ed esistenziale”.

Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla” sostiene papa Francesco. Si parla di un nuovo evo caratterizzato da una economia a misura d’uomo, che prenda in considerazione i cambiamenti climatici e tenda ad una economia circolare. Professor Erberto Petoia, il Mezzogiorno potrebbe candidarsi a incarnare il nuovo umanesimo o siamo ancora intrappolati in quello che Banfield ha definito “familismo amorale”?

“Ogni volta che si riapre in maniera drammatica e in forme del tutto nuove il problema della condizione umana, l’Umanesimo ritorna di attualità. Io credo che siamo ancora ben lungi da un’Europa come motore o promotore di quel processo di integrazione e di umanizzazione dei popoli, delle culture, delle religioni. Mai come in questo momento storico, però, caratterizzato da logiche sovraniste, da chiusure, da opposizioni al movimento e alla trasmigrazione delle genti, il Sud sembra essere diventato il simbolo dell’apertura, del movimento, dell’accoglienza, della solidarietà, in contrapposizione alla chiusura fortemente e ottusamente sbraitata da ridicoli leader politici. In quest’ottica il Sud, con la sua storia e la sua cultura, si può candidare a rappresentare un modello da rivalutare e da preservare, per farci recuperare, in un drammatico momento di transumanza culturale, come amava ripetere Alfonso M. di Nola, un nostro ubi consistam esistenziale che possa metterci al riparo dal rischio di scomparire nell’anonimia della società globalizzata e del profitto.  Il controverso concetto di familismo amorale teorizzato da Banfield ne Le basi morali di una società arretrata, unitamente alle opere ormai classiche di De Martino, Sud e magia, e di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, ha contribuito in maniera determinante a veicolare del sud un’immagine distorta e mistificante. L’analisi di Banfield, con tutte le sue luci e ombre, più che al meridione in genere, però, oggi si adatta meglio al malcostume ereditario nazionale dei giorni nostri, dei seggi parlamentari lasciati ai figli, dei primariati ospedalieri, dei notariati, dei baronati accademici, dove i natali illustri sembrano avere la meglio sulle capacità e le competenze. Questo sì, è vero familismo amorale”.


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