Sono i partiti il grande malato della democrazia. Ma gli analisti guardano altrove per risalire alle ragioni della crisi delle democrazie occidentali. Le alternative alla democrazia, secondo il divulgatore britannico David Runciman, sono essenzialmente tre, come si legge sul quotidiano Sole 24 Ore in un articolo a firma di Sabino Cassese: «Autoritarismo pragmatico, tipo Orbàn, Putin o quello cinese; epistocrazia, cioè forme di democrazia corrette dal ‘governo degli esperti’ nei modi proposti di recente da Brennan nel suo libro Against Democracy; oppure quella che l’autore denomina ‘tecnologia liberata’. Nel libro “How democracy ends” David Runciman parte dalla situazione di questi anni, precipitata dopo la Brexit, l’ascesa di Trump negli Usa e la sconfitta delle forze europeiste in Italia, per disegnare lo scenario futuro di un sistema democratico prossimo al declino. Nel commentarlo, Sabino Cassese trova alcune ragioni di originalità in questo lavoro, ma soprattutto sottolinea la ragione della sua delusione, perché il testo «…non concentra l’attenzione sul dato più preoccupante, quello della crisi dei partiti», la cinghia di trasmissione tra i cittadini e le istituzioni.

Se David Runciman avesse atteso almeno fino a queste ore prima di dare alle stampe il suo volume, avrebbe potuto invece mettere proprio la crisi dei partiti alla base del declino delle democrazie occidentali affermatesi in antitesi al Fascismo nell’ultimo (ormai lontanissimo) Dopoguerra. Gli sarebbe bastato ascoltare l’interessante e senza precedenti affermazione di Luigi Di Maio, Vicepresidente del Consiglio italiano, a proposito dell’Europa. Citando le frasi a lui attribuite in un servizio de La Repubblica, Di Maio prevede tra sei mesi «un terremoto politico a livello europeo e tutte le regole cambieranno. In tutti i paesi europei – lo vediamo dai sondaggi – sta per accadere quello che è accaduto qui il 4 marzo. Si vedrà con le elezioni europee e questo ci aiuterà». Lo aveva già detto ospite di Coldiretti, come conferma il video realizzato da RepTv, qui riportato.

Secondo il Vicepresidente italiano, dunque, le forze europeiste si preparano a finire all’Opposizione in un Parlamento europeo dove invece saranno gli euroscettici ad assumere il controllo della Commissione Europea e delle principali istituzioni comunitarie.

Se questo avverrà non è dato sapere oggi. Certo, esattamente come ha chiarito Sabino Cassese nell’articolo citato, sono i partiti il problema. A determinare il cambiamento non sono i media, ma il messaggio che portano i media. Non è Facebook ad aver fatto perdere agli inglesi il passaporto europeo o ad aver dato il visto d’uscita al Governo di Paolo Gentiloni in Italia, ma la parola scritta, cioè le idee. Nel mirino dell’opinione pubblica non c’è il sistema democratico, ma una classe dirigente che non ha saputo interpretare la domanda che veniva dal Paese (ovvero dalle principali democrazie europee) di fronte alla condizione di disagio economico dei cittadini.

Nell’epoca in cui le informazioni sono condivise all’istante da cittadini che prima di oggi non seguivano le vicende politiche con particolare assiduità, l’opinione pubblica si forma su quelle che il poeta Franco Arminio ha definito le ‘dicerie’ (leggi la sua lettera indirizzata al Premier Giuseppe Conte). Le ‘chiacchiere da bar’, come negli anni ’70 e ’80 i funzionari di partito definivano le voci di corridoio, hanno preso il posto della ‘verità sostanziale dei fatti’, fondamento giuridico e deontologico della narrazione giornalistica italiana ed occidentale. La crisi dei partiti, certamente conseguenza della destrutturazione, dell’abolizione del finanziamento pubblico, della fine delle ideologie, in questo contesto perdono credibilità agli occhi della opinione pubblica perché la storia che raccontano non è più convincente. Le forze politiche europeiste, alla testa per settant’anni del processo costitutivo di una Europa Unita, si ritrovano improvvisamente a metà della traversata nella stessa condizione vissuta dal grande Alessandro: giunto a unire il mondo ellenico con quello persiano, non riuscì a convincere il suo esercito a continuare l’espansione in assenza di un nemico. Non riuscì a motivare la necessità di ulteriori sacrifici mutando lo storytelling, come un ispirato Alessandro Baricco ha spiegato in una sua celebre lezione a Mantova, incentrata sul rapporto tra la grandezza di Alessandro Magno e la sua capacità carismatica di trascinare le masse greche in imprese titaniche (sotto un passaggio chiave della sua lezione, ripreso da una trasmissione di Rai 5 postata su YouTube).


BARICCO MANTOVA LECTURES | IL CAMBIO DELLO STORYTELLING


Semplicemente il sistema dei partiti non è riuscito a spiegare ai cittadini perché dovrebbero accettare il sacrificio di un aumento delle diseguaglianze sociali, la disoccupazione su vasta scala e la convivenza nelle città con centinaia di migliaia di poverissimi diseredati profughi, a cui le norme europee impediscono di lavorare e integrarsi. Nessuno in questi anni, né Angela Merkel a Berlino, né Matteo Renzi a Roma, nemmeno Barack Obama negli Usa, sono riusciti a dare una spiegazione, a modificare lo storytelling. Nessuno ha spiegato come rimettere liquidità nell’economia riequilibrando gli effetti della globalizzazione finanziaria e delle bolle speculative, né si è offerto un modo per rendere ordinato il flusso dei migranti garantendo la sicurezza, né si è proposto un modo per consentire ai giovani di trovarlo e agli anziani di conservarlo un lavoro.

Lo storytelling europeista ha registrato una falla, che ha permesso ad un’altra visione di affermarsi al suo posto, lo storytelling antieuropeista. Se gli europeisti cristallizzano regole che provocano disagio sociale ma non sanno porre rimedio, chi si contrappone non ha bisogno di dare ricette. All’antieuropeismo basta validare la incertezza di chi si ritrova nella difficoltà di non avere un nuovo storytelling da offrire. Se l’Europa non ha risposte, i partiti proEuropa non hanno ricette, basta uscire da quelle regole per avere quello che oggi è negato. È bastato solo questo.

La crisi dei partiti è una crisi di visione, cioè di direzione. In politica serve sempre una terra promessa cui tendere per portare compatto un intero popolo alla meta, altrimenti il caos e il disordine mettono a rischio l’ordine e le regole. Nessuno resterebbe a bordo di un treno senza un macchinista alla guida o a salirebbe su un aereo con il solo pilota automatico. La crisi dei partiti è originata dalla incapacità di fornire alla casalinga, allo studente, al professore universitario un futuro credibile nel quale vivere.

La prova di questa tesi, così brillantemente argomentata da Alessandro Baricco a proposito di Alessandro Magno, è incarnata in Matteo Renzi e nella sua straordinaria capacità di scrivere e poi distruggere il suo storytelling nello spazio di soli due anni. Ancora in queste settimane nel campo politico che ha guidato alla guida del Paese a tutti i livelli ci si interroga su di lui. Da piazza della Signoria a Firenze a leader indiscusso della sinistra europea a pranzare alla Casa Bianca ospite del Presidente degli Stati Uniti, Renzi oggi si ritrova ai margini della scena politica, schiacciato dalla sua unica esitazione mediatica, che lo ha condannato la sera del 4 dicembre 2016.


MATTEO RENZI iL 4 DICEMBRE 2016 | Passaggio di consegne a M5s e Lega


Di fronte al Popolo italiano quello che aveva avuto una delega a governare senza precedenti nella storia del Paese, avendo raccolto il 41% dei voti alle fondamentali elezioni europee del 2014, meno di due anni dopo ha certificato con le sue stesse parole lo storytelling degli avversari. Con una conferenza stampa incomprensibile e sorprendente, Matteo Renzi ha trasformato l’opposizione al Referendum costituzionale in un soggetto politico, dando forma lui alla attuale maggioranza gialloverde formata da Lega e Movimento Cinque Stelle. Ha chiesto loro di assumere il governo del Paese, di fare proposte sulla legge elettorale, di assumere la responsabilità di prendere il suo posto. Ha annunciato le dimissioni dal Governo spiegando che il voto costituzionale rappresentava per lui una bocciatura personale, cioè dando ragione alla campagna costruita contro di lui dagli avversari. In pochi minuti ha aperto le mura della città di Troia ai greci, rivelandosi per i suoi il cavallo di Ulisse. Renzi, con la sua tesi, si è assunto responsabilità di fronte al Paese che non aveva, trasmettendo l’idea che il suo lavoro al Governo era iniziato e finito con quella riforma, frutto di un compromesso con le opposizioni di allora, da lui peraltro non votata perché Premier non parlamentare. E il Popolo italiano ha seguito il suo (anti) storytelling. Quando ha pronunciato quelle parole il suo partito era accreditato del 36 per cento dei consensi, poi dimezzati all’atto del voto popolare del marzo 2018. Di fronte alla dichiarazione fatta spontaneamente di resa incondizionata, chi lo aveva sostenuto ha preso atto della mancanza di direzione ed ha cambiato strada, scegliendo di votare altre proposte o restando a casa per protesta.

Lo storytelling è stato fatale anche alla cosiddetta Prima Repubblica, i cui protagonisti non sono stati capaci di affrontare il problema di Tangentopoli, che ha compromesso il percorso politico anche a chi non è risultato implicato nei fatti giudiziari del biennio 1992-93. Non lo era stato prima di allora per i partiti, ma solo per il percorso dei singoli leader politici. Per comprenderlo è sufficiente scorrere i diari lasciati dal compianto avellinese Antonio Meccanico, raccolti e pubblicati ne “Il tramonto della Repubblica dei Partiti. Diari 1985-1989”, curato da Paolo Soddu, edito da Il Mulino con la prefazione di Sabino Cassese.

ANTONIO MACCANICO – Il tramonto della repubblica dei partiti. Diari (1985-1989)

Dalla prefazione di Cassese. Dopo la cronaca degli anni trascorsi al Quirinale nel settennato di Pertini, prosegue in questo volume il resoconto dell’esperienza istituzionale di Antonio Maccanico. Trascorso circa un anno e mezzo con Cossiga al Quirinale, all’inizio del 1987 Maccanico è eletto presidente di Mediobanca e in tale veste ne conduce in porto la sofferta privatizzazione. Nell’aprile 1988 assume il primo diretto incarico politico come ministro per gli Affari regionali e problemi istituzionali. Avvia il faticoso percorso delle riforme che sostarizia il tentativo del governo di Ciriaco De Mita, segretario della Dc e presidente del Consiglio. Nel 1989, alla vigilia del disfacimento dei regimi dell’Est europeo, lo sostituiscono rispettivamente Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti, che occupavano quei ruoli già 16 anni prima: Maccanico rimane al governo. I diari restituiscono la luce crepuscolare del quinquennio 1985-1989, caratterizzati da scelte che annunciano l’indirizzo dell’economia nella nuova realtà globalizzata e da resistenze che preludono all’esaurimento dei soggetti costituenti.

Dalla lettura di quel testo non solo traspare «… un mondo in briciole, dove uomini di partito e di governo, capitani d’industria, giudici, si muovono disordinatamente, senza un obiettivo che non sia quello personale, senza rispettare sequenze e procedure o altre regole, richiedendo continue cuciture, arbitrati, compromessi. Insomma, il contrario dei tanto favoleggiati ‘poteri forti’ o della sempre evocata ‘stanza dei bottoni’», si legge nella prefazione di Cassese. Ma citando la recensione pubblicata ieri ancora dal Sole 24 Ore, conclusa con una celebre battuta di Longanesi ad un amico, assistendo dalle tribune a una seduta della Camera dei Deputati: «La vedi questa gente qui? Pensa, verrà un giorno che ci toccherà rimpiangerla».

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