“Il quaderno di Maya” di Isabel Allende

Ilde Rampino recensisce per Nuova Irpinia uno die romanzi di maggiore successo della scrittrice cilena naturalizzata statunitense

“Il quaderno di Maya” di Isabel Allende. “Scrivere un diario della mia vita come avevo fatto dagli otto ai quindici anni” è il pentagramma su cui si muovono le note stonate dell’esistenza della protagonista, Maya Vidal, la cui memoria si muove tra cerchi concentrici e tessere spezzettate di un mosaico di una vita segnata dall’assenza: i suoi genitori, ognuno perso tra i meandri della ricerca di qualcosa che non riuscivano ad ottenere, una corsa continua contro il tempo, incapaci di fermarsi.  Fondamentale è sua nonna Nidia, chiamata “La mia Nini” e Popo, il suo secondo marito che la tennero con sé, si presero cura di lei, accogliendola e proteggendola col cuore anche quando lei sfuggì attraverso le maglie strette di una rete che sentiva opprimente, in cerca di una libertà in cui si perse. Maya conosceva poco del passato di sua nonna, solo pochi cenni: la morte del suo primo marito per un arresto cardiaco in Cile, il trasferimento in Canada, una volta rimasta vedova, portando con sé il loro figlio Andrès, che era ancora un ragazzo e l’incontro con l’astronomo Paul Ditson, chiamato famigliarmente Popo, un amore che durò tutta la sua vita e che lei sposò poco dopo, seguendolo in California. Lei era convinta che il destino aveva voluto che tutti e due fossero giunti da lontano per ritrovarsi in quel punto della terra: erano molto diversi e il loro amore trasformò la loro vita; Nini indossava spesso lunghe tuniche e sandali e portò una ventata di follia nel mondo ordinato di Paul, dipingendo la grande casa dei Ditson con colori accesi. La vitalità di Nini  era incredibile, si impegnava in varie attività a sostegno dei più deboli e aveva inculcato in Maya il concetto di coscienza sociale, portandola con sé nelle varie manifestazioni a cui partecipava. Aveva stretto una profonda amicizia con Mike O’Kelly, che, nonostante fosse sulla sedia a rotelle perché gli avevano sparato mentre cercava di proteggere un ragazzo di una banda, si occupava dei tossicodipendenti e dei giovani che vivevano una situazione di disagio. Nini non avvertiva la nostalgia del suo Paese natale, il Cile e non voleva tornarvi, a causa del ricordo dei momenti difficili vissuti là e forse anche perché ne serbava un’idea poetica e aveva paura di confrontarsi con la realtà. L’adolescenza di Maya fu funestata dalla mancanza di sua madre che l’aveva abbandonata e dal rapporto inizialmente difficile con Susan, la nuova moglie di suo padre, che cercava di compensare, con la sua presenza, il desiderio enorme d’affetto che la ragazza provava, ma non ci riuscì. Una figura le era accanto e lo sarebbe stata per tutta la sua vita, “Popo” : la sua malattia che in breve tempo lo portò alla morte fu la prova più terribile che la vita le avesse posto davanti, ne sentiva disperatamente la mancanza, perché egli la amava incondizionatamente e le perdonava qualsiasi cosa. La casa di Berkeley che era sempre stato il suo mondo e in cui era vissuta accanto ai suoi nonni, improvvisamente perse la sua luce e la tristezza divenne la compagna delle sue giornate e delle sue notti. Anche Nini, provata dal dolore,cominciò a lasciarsi andare. Maya non pronunciò più il nome del nonno, anche se a volte ricordava le sue parole: “Sarò sempre con te”; il suo cuore era pieno di troppo dolore, provava un profondo senso di solitudine, si sentiva diversa dagli altri, furibonda verso il mondo e non voleva essere accettata, ma temuta. Cominciò a frequentare cattive compagnie, a rubare e drogarsi, entrando in una spirale di violenza e degrado, unita ad una totale mancanza di scrupoli; fu sottoposta a vari ricoveri in ospedale a causa di incidenti sotto l’effetto dell’alcol. Nini e suo padre non la riconoscevano più, erano preoccupati e decisero di rinchiuderla in un collegio in Oregon, per allontanarla dal suo ambiente e curarla. I primi tempi furono molto difficili, si sentiva abbandonata da tutti e forte era l’impulso di scappare; alla fine ci riuscì, ma la sua esistenza venne travolta da una serie di incontri pericolosi che la misero in contatto con un’organizzazione criminale che aveva lo scopo di rifornire di droga i ricchi di Las Vegas. Maya entrò in un circolo vizioso, in una spirale di violenza, a contatto con persone di ogni genere, sfruttatori e povere infelici, considerate “vuoti a perdere”:

l’unica persona a cui era legata da un profondo affetto era Freddy, distrutto dalla droga, ma che riuscirà a salvarle la vita, come una fune lanciata su un precipizio. Sembra che il destino di Maya sia definitivamente segnato, ma ancora una volta sarà Nini a salvarla: attraverso varie conoscenze riuscirà a farla partire lontano e ad approdare in una sperduta isola, Cloè, a sud del Cile, per sfuggire ai suoi inseguitori e alla polizia, affidandola a Manuel Arias, un suo vecchio amico. Manuel era un solitario  e la sua casa era formata da una grande stanza a doppia altezza, con al centro una stufa a legna: l’anima della sua casa era molto antica e Maya “piombò come un meteorite nella sua vita” e lo travolse inizialmente, ma poi il rapporto tra di loro cambiò e iniziarono ad avere fiducia l’uno nell’altra. Maya cominciava a sentire che “stava mettendo radici” su quell’isola, ne avvertiva la magia, anche attraverso gli incontri con la gente semplice e vera del posto, come “zia”Blanca, la direttrice della scuola. Cominciò a leggere i libri di Manuel e manteneva la sua promessa: niente alcol, né droghe, né telefono, né posta elettronica e a poco a poco riuscirà a sentire le voci dell’isola: gli uccelli, il vento e la pioggia.

La vita di Maya cambia radicalmente a contatto con tante persone che collaborano alla realizzazione di un lavoro e la ragazza è affascinata, nonostante le cicatrici della sua anima, da quel mondo così diverso, pieno di serenità, improntato sulla solidarietà e su un concetto particolare di baratto, che fa in modo che tutti vengano aiutati, al di là di ciò che possiedono. Significativa è la notte che trascorre, accompagnata da Blanca, con le “streghe buone” a Castro: si sente di nuovo completa e più in pace con se stessa, provando una “felicità senza clamore”. Impara che è sufficiente l’esperienza di amare ed è questo che ci trasforma e, quando conosce Daniel, vorrebbe fargli una buona impressione, ma comprende che la persona che è ora è il risultato delle sue esperienze precedenti, anche degli errori più estremi da cui bisogna trarre insegnamento. Anche la vita di Daniel non è stata felice: è stato adottato e ha un rapporto profondo con la sorella Frances, che ha dei problemi in seguito a una caduta e la loro famiglia, nonostante il divorzio dei genitori, si stringe intorno a lei. Maya e Daniel non riescono a vivere pienamente i loro sentimenti, anche a causa dei traumi del loro passato e si sentono sospesi in uno spazio virtuale che pian piano distruggerà l’amore.

La vicinanza a Manuel le fa capire i veri valori della vita: gli è molto legata e ne avverte il tormento interiore, la sua “malattia dell’anima”; attraverso delle ricerche, riesce a ricostruire il suo passato che nasconde il ricordo di violenze subite durante la dittatura militare, ma quando apprende che tra loro esiste un legame più forte, di cui egli ha sempre serbato il segreto, afferma che “Popo è sempre mio nonno”, gli deve tutto, gli ha fatto sentire sempre la sua presenza accanto a lei e ricorda sempre le sue parole, quando piangeva, dopo la scomparsa della sua amata cagnolina:”Quell’affetto è in te, Maya, non in Daisy, puoi darlo ad altri animali e quello che avanza darlo a me”. E finalmente avverte intorno a sé quel calore umano, non avverte più la solitudine e si sente “parte di una tribù, anche se un po’sparpagliata”.

Ilde Rampino

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