Il ventre di Napoli di Matilde Serao

Il ventre di Napoli di Matilde Serao. Un libro pieno di intensità, scritto in tre epoche diverse, nel 1884, vent’anni dopo e nel 1905, da Matilde Serao che si definisce “anima solitaria e ardente di passione per il suo paese”: pagine intense in cui si avverte tangibile una condivisione e un dolore disperato e intenso per una città che la scrittrice sente dentro di sé, quel “ventre” che è l’immagine di un microcosmo afflitto dalla miseria, ma che conserva dentro di sé una certa dignità, nonostante tutto. Questo libro è una sorta di pamphlet, denso di cocente polemica contro il governo che ha abbandonato la città a se stessa, quartieri che si sono trasformati a poco a poco in un “budello” stretto, da cui è difficile uscire, in cui si rintanano i dolori e la povertà di una miriade di persone che cercano di andare avanti in tutti i modi. La Serao pone l’accento sugli sforzi che i napoletani fanno ogni giorno per raggranellare qualche spicciolo e sulla condizione dei bambini costretti a lavorare come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Sembra di percepire, attraverso le pagine del libro, una vivida descrizione delle strade della Napoli dell’800, di percorrerle quasi, in un affresco che raffigura i “bassi”, coacervo di contrasti e sforzi immani per risalire alla superficie anche in senso metaforico, luoghi in cui si concentrano i dissidi, le viuzze sporche e oscure, putridume e masse enormi di gente, ricettacolo di odori, ma anche apertura verso il mondo degli altri, con l’esposizione di ogni tipo di merce sui marciapiedi e anche della propria vita personale, esposta agli occhi degli altri, in una sorta di desiderio inconscio di essere parte della città e farsi accettare, nonostante la propria miseria. L’autrice ci accompagna lungo le vie di Napoli, con il “banco dell’acquaiuolo”, la pizza che costava un soldo, il “maccaronaro”,  lo “spassiatempo”, i semi di mellone che venivano rosicchiati per una mezza giornata per avere l’illusione di riempire lo stomaco. Elemento di spicco di questa incredibile città è anche la religiosità popolare che si esplica attraverso gli altarini e le reliquie, ma anche la superstizione, la jettatura, la presenza degli spiriti e delle fatture, il gioco del lotto, definito “l’acquavite di Napoli”, espressione delle speranze e dei sogni che si diffonde come una marea anche tra i più ricchi, con l’appuntamento delle quattro del pomeriggio, in cui avviene l’estrazione dei numeri, la condivisione dei propri problemi e la grande capacità di sopportazione di questa sorta di “corte dei miracoli”. Un senso profondo di rassegnazione e fiducia nel Caso sono tutti elementi peculiari e significativi di questo affresco di vita quotidiana, terribile e magnifica che assume a volte anche un carattere pittoresco. Ciò che rende maggiormente l’umanità di questo popolo è il concetto di Pietà, che viene espresso attraverso esempi incredibili di carità, prendendosi cura di coloro che hanno bisogno, siano essi anziani, bambini – suggestivo è il riferimento alle “figlie della Madonna” –  o donne incinte, nonostante le condizioni difficili di vita.

Nella seconda parte del libro, si avverte, da parte dell’autrice, un diverso approccio a questa città, mentre descrive il Rettifilo costruito nel 1894, che doveva rappresentare una via di risanamento per la città, ma in realtà costituisce una sorta di “paravento”, dietro cui si avverte uno stridente contrasto con ciò che occhieggia dai vicoletti, in cui si ammassa una folla spaventosa, spesso ricettacolo di miseria umana e materiale. La Serao descrive il ”basso” in cui abita la povera gente, nonostante le case popolari che sono state costruite, ma che costano troppo e chiede al governo una maggiore cura per i poveri, invece di  abbellire la città per i turisti. “Bisogna rifare”, secondo le sue parole, dettate da una profonda amarezza, perché il popolo di Napoli non si merita quella sorte, è necessario dare un po’ di luce non solo metaforicamente ai quartieri dove abita la povera gente, vessata dalla delinquenza, dall’usura, a cui la povera gente non reagisce, con le agenzie di pegni che proliferano dovunque, mali spesso inevitabili per coloro che vivono in situazioni disagiate, ma che devono essere estirpate in questo popolo dimenticato da tutti, ma di cui tutti dovrebbero sentirsi responsabili. Nell’ultima parte “L’anima di Napoli” la Serao afferma con determinazione i principi a cui il popolo napoletano non rinuncia e che ella persegue attraverso i suoi scritti e il suo impegno sociale e dà rilevanza al concetto di onore che non è una semplice parola ma assume un profondo significato. Irride ai fantasmagorici progetti che hanno in serbo per Napoli come il “Rione della Bellezza” nel quartiere di Santa Lucia, che sarà di scarsa inutilità, mentre celebra l’importanza di Via Toledo, definita “la vita stessa”, che ha visto il passaggio di re e di persone importanti, dove si sente ancora il profumo dei ricordi e tracce di vita, che hanno rappresentato “il pane dell’anima”.

A cura di Ilde Rampino

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