“Via Gemito” di Domenico Starnone

Ilde Rampino recensisce per Nuova Irpinia uno dei capolavori letterari dell'autore partenopeo. Vincitore del Premio Strega, Via Gemito è il romanzo che ha portato la fama dell'autore su un livello internazionale

A cura di Ilde Rampino

La storia di un difficile rapporto famigliare, in cui spicca la figura del padre del narratore, Federì, artista incompreso e pieno di livore, che diventa il perno di una famiglia in cui la violenza segna tanti, troppi momenti e suscita un rancore sordo da parte del figlio, che assiste impotente agli scoppi d’ira immotivati del padre soprattutto verso sua moglie. Il narratore descrive con dovizia di particolari il malcelato senso di superiorità del padre, che non si sentiva considerato per il suo talento, ma era costretto a fare un lavoro che non gli piaceva – il ferroviere – ma che soprattutto lo poneva in una condizione di sudditanza verso gli altri. La voce del padre si manifestava come un urlo, diveniva roboante, come se volesse conquistare il mondo e tenerlo ai suoi piedi, levando in alto lo scettro della sua arte pittorica, che nessuno voleva comprendere e apprezzare. E il figlio avvertiva in sé un fastidio misto a paura, una sorta di assenza di energia provocata dalla voce del padre, che si rivolgeva alla madre, con un appellativo,”Vanesia” una parola strana che assumeva a poco a poco il carattere di un marchio, un’onta, tra l’altro immeritata.

Federì, con  il suo carattere irascibile e il suo linguaggio, in cui il turpiloquio la faceva da padrone, comanda sulla sua casa come un generale, denigrando tutto e tutti, soprattutto sua moglie Rusinè, vittima sacrificale e rassegnata, ma che in alcuni momenti reagisce non opponendosi alla violenza, ma esprimendo il proprio amore per la sua famiglia di origine e attirandosi di conseguenza le ire del marito. Egli è un mentitore nato e costruisce tutta la sua vita sui binari di una falsa esistenza, assume un’ aria da gran signore, cercando disperatamente e nello stesso tempo, pretendendo l’ammirazione degli altri artisti, che nomina continuamente, come se fosse un titolo acquisito che lo innalza in un ambiente a cui egli ambisce.

La sua intraprendenza nel crearsi un ruolo si manifestava anche attraverso il turpiloquio, che lo caratterizzava come una cadenza per distinguersi dagli altri ed elevarsi su un piedistallo. Aveva bisogno di questo, Federì, come rivalsa verso chi non aveva mai creduto in lui, come suo padre, che non si accorgeva della precocità della sua vocazione, quando disegnava dovunque ed esprimeva la sua capacità di rappresentare oggetti, figure in modo ingenuo, ma che lasciava intravedere un futuro artista, quando descriveva con passione le differenze tra i vari colori. Era considerato un bambino anomalo ed era stato affidato alla nonna e lasciato lì per un poco tempo, senza chiedergli niente, quasi come se fosse un pacco. E Federì, nonostante la sofferenza provata durante l’infanzia, inconsapevolmente aveva ricreato quello schema che conosceva così bene, caratterizzato dalla mancanza di affetto.

Spesso Federì era consapevole di suscitare fascino e ammirazione tra le donne e tra quelli che lo circondavano, a cui non rivelava il suo vero lavoro, ma narrava del suo periodo al Teatro Bellini, in cui era diventato interprete e si era ritagliato un ruolo importante o quando parlava del “ruolo salvifico” che aveva avuto durante il parto di sua moglie.

La presenza dirompente del padre influenza negativamente la vita del figlio, lo fa sentire a volte come un automa, incapace di reagire: “mi portava il cervello altrove”, le sue urla lo spaventavano ed era come se il rapporto con lui fosse limitato a pochi momenti: “la porta che sbatte perchè lui è uscito e quando è entrato”. Il figlio si sentiva rinchiuso in una gabbia di ingiurie continue in famiglia che gli “cancellava l’allegria”, mentre notava il desiderio continuo del padre di eccellere in qualsiasi campo, mentre la richiesta : ”ti piace?” del padre lo rendeva orgoglioso, anche se capiva che il suo era soltanto un desiderio smodato di riconoscimenti. Egli non si sente considerato dal padre, vorrebbe avere un contatto con lui e quando gli fa da modello, viene bruscamente rimproverato, perchè non riesce a stare fermo.

Molto particolare è l’episodio in cui egli scorge un ”pavone”nella stanza, un’immagine di luce multicolore che fa da contraltare al buio della tristezza che riempiva la sua casa, in cui non si riusciva a percepire un afflato d’amore. Quando egli lo indica al padre, egli afferma di non vederlo: in quel momento, egli si sente importante, perchè non avrebbe mai voluto somigliare a suo padre. In lui la smania di emozioni veniva compressa in una tensione perenne nei suoi confronti  e avvertiva la paura di rendere sudici i propri sentimenti d’amore con la vicinanza del padre, di cui avrebbe voluto liberarsi attraverso una pulsione omicida.

Significativo per descrivere la mania di onnipotenza di suo padre è il quadro intitolato “I Bevitori” creato, utilizzando un enorme lenzuolo che faceva parte del corredo matrimoniale di sua madre che egli, nell’impeto della creazione, aveva disposto nella stanza, impedendo a tutti la normale vita familiare: era lui, che si imponeva con il suo volere a cui tutti dovevano sottostare, per imprimere la sua urgenza di spazio materiale e psicologico.

Attraverso le pagine del libro l’autore delinea alcuni personaggi importanti come lo zio Peppino, l’unica persona che il padre apprezzava della famiglia della moglie e Modesta, simbolo di vita interrotta bruscamente che aleggia con il suo ricordo nella sua casa, come una dolce presenza che trasmette serenità, pur nel dolore.

Il libro si può considerare una ricerca dei luoghi in cui era vissuto suo padre, rappresentandoli come mappe dei suoi bisogni, ritornando alle proprie radici per riannodare i fili di una vita che avrebbe voluto condividere, ma ne è stato escluso.

 

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