“Ciò che possiamo fare” di Lella Costa

A cura di Ilde Rampino 

La vicenda, intensa e significativa di una donna, Edith Stein, che rappresenta un simbolo, un’antesignana dei diritti delle donne, ma soprattutto una persona che ha fatto una scelta radicale e ha pagato con la vita, ma a causa dell’insensatezza di ogni persecuzione. La sua conversione, il momento topico della sua vita, attorno a cui si delineano i destini di se stessa e in un certo senso del mondo che la circonda, avviene quasi per caso: in un momento in cui, lei, cresciuta in un ebraismo laico, ma tuttavia che costituiva per sua madre Augusta una traccia importante per il proprio percorso spirituale e personale, vede un giorno entrare in chiesa una donna, con la borsa della spesa. E’ il momento in cui si accende in lei una luce diversa, comprende la possibilità di un rapporto diverso con la religione, più intimo, quasi familiare e confidenziale. Edith è alla ricerca di un proprio posto nel mondo: la sua nascita, proprio nel giorno di Yom Kippur, un giorno significativo per gli ebrei, cioè il giorno dell’espiazione, sembra indirizzare la sua vita verso quella religione, che la madre considera un senso di appartenenza.

La perdita del padre quando è molto piccola le fa perdere il senso profondo delle proprie radici e prende una decisione inaspettata: si dichiara atea. I suoi studi all’Università di Gottinga la appassionano alla fenomenologia che è anche la comprensione delle relazioni umane fino a giungere alla comprensione di se stessi. La vita di Edith è piena di sfaccettature e soprattutto di impegno fattivo. Allo scoppiare della guerra si sente travolta da eventi che la riguardano da vicino e ancora una volta sceglie di diventare l’infermiera, perché è convinta che ”tutti, uomini e donne, hanno una guerra da affrontare, talvolta contro quelli che amiamo”. Assiste le vittime delle epidemie e si rende conto del valore dell’empatia nel rapporto con gli altri. Un’altra esperienza la attende: il rapporto allieva-maestro che all’inizio la gratifica, ma poi le procura una profonda delusione, poiché viene esautorata nelle ambizioni accademiche, le viene preferito un uomo. La determinazione di Edith non si ferma e chiede al ministro dell’Istruzione che il percorso accademico venga aperto alle donne, presentando anche la propria candidatura ma le viene negata. L’amarezza maggiore scaturisce dalla convinzione che ”per le donne è indispensabile cambiare nome per ottenere un posto nella Storia”, come è avvenuto per George Sand.

La sua ricerca spirituale non si ferma e la risposta all’ansia di vivere è quella di acquisire competenze e tracciare percorsi di significato: comincia a leggere gli scritti della mistica Teresa d’Avila: l’ebraismo intellettualmente alimenta i dubbi, ma lei ha bisogno di abbandonarsi nella fede e sente che il cattolicesimo la accoglie. Nel 1922 Edith si converte e nel 1933 prende i voti: nei dieci anni che intercorrono tra la conversione e l’ingresso nel convento, Edith Stein esprime la propria concezione della donna, a cui riconosce i bisogni fondamentali, come quello di proteggere e di custodire, ma riconoscendole anche parità e dignità; suggerisce un naturale destino di mogli e madri- in realtà ciò che lei non ha mai voluto essere – ma in tutta la sua corrispondenza si firmerà sempre con il suo nome, finchè non prenderà definitivamente il velo.

Significativo e profondo è il rapporto con sua sorella Rosa, più grande di lei di otto anni, che si affida a lei, ricalcando in un certo senso le sue orme –anche lei si convertirà al cattolicesimo, ma solo dopo la morte della madre: Edith si prenderà sempre cura di lei,fino a farla accogliere nel suo convento e a condividere il proprio destino finale. La vicenda personale e umana di Edith Stein può racchiudersi in una parola chiave: responsabilità e impegno: “Consentitemi di fare il meglio che posso”, al di là di qualsiasi pregiudizio. Nel 1933 scrive una lettera a Papa Pio XI, riflettendo sulla situazione ebraica, all’avvento del nazismo – “la Croce viene messa addosso al popolo ebraico” – ed esortandolo a prendere una posizione chiara, un vero e proprio grido d’allarme che purtroppo rimane inascoltato. La svolta definitiva avviene nel 1935 quando Edith diviene Suor Teresa Benedetta dalla Croce, la domenica successiva alla Pasqua, esattamente un anno in cui ella avvertì la prima certezza della sua vocazione. Si era sempre sentita fuori posto, ma in convento trova la propria dimensione,provando “una gioia quieta e assoluta”, superando l’io individuale in una prospettiva di fede e amore universale. La sua morte ad Auschwitz nel 1942 è il momento finale di un destino che si potrebbe definire assurdo, la sua patria  la uccide, perché ebrea, lei cattolica e la sua disperata consapevolezza: “Vieni, Rosa, andiamo per il nostro popolo”diventa un monito per tutti. Straziante il rilascio del visto tempo dopo e l’invio di riviste di filosofia: un segno del suo desiderio perenne di dedicarsi allo studio e di esserne stata privata, insieme alla sua vita.

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