“Capolavoro d’amore” di Ruggiero Cappuccio

Un susseguirsi di misteri e di sensazioni inafferrabili che riconducono ad un centro, rappresentato dal quadro della Natività rubato nell’ Oratorio di S. Lorenzo a Palermo nel 1969 e mai più ritrovato

“Capolavoro d’amore” di Ruggiero Cappuccio. Un susseguirsi di misteri e di sensazioni inafferrabili che riconducono ad un centro, rappresentato dal quadro della Natività rubato nell’ Oratorio di S. Lorenzo a Palermo nel 1969 e mai più ritrovato. Il ritorno del protagonista, Manfredi, dopo otto anni, nel luogo in cui aveva vissuto tanti anni della sua vita lo fa immergere in un marasma di ricordi, in quella città per lui a volte incomprensibile: ”Palermo è una schiava che cerca un padrone sul quale regnare”, un luogo di contrazioni e di misteri, in cui ai vulcani è stata affidata l’irresolutezza della sua storia e il senso si sfida con il vento che soffia contro, in mezzo alle tempeste della vita. Manfredi viene richiamato a Palermo da suo zio Rolando che vuole rivederlo ed egli accetta, pur inconsapevole del motivo della sua richiesta: egli, pianista di fama internazionale, aveva deciso improvvisamente di non suonare più, perché si era accorto che alla sua età avvertiva con serenità che non c’era più tempo, aveva ormai ottantasette anni e, per continuare a vivere, bisognava “fingere che il tempo non esista”.

Ciò che accomunava Manfredi e suo zio era la “passione per il tempo che non passa”: Manfredi non portava mai l’orologio, sentiva che il tempo intorno a lui si frantumava attraverso incertezze e dubbi e si sentiva circondato da un “esercito di fantasmi”. Egli era attratto dal carisma del silenzio magnetico dello zio e prova un profondo turbamento quando egli gli confessa frammenti di episodi della sua vita, soprattutto quando parlava del suo grande amore per sua moglie Eugenia: lei sapeva “sintonizzarsi in silenzio con tutte le sue emozioni e riusciva a contemplare i suoi segreti”. Il primo incontro tra di loro era
avvenuto proprio davanti al rettangolo di muro dove era il quadro rubato: l’assenza dell’opera la attraeva con una forza misteriosa, quello spazio vuoto rappresentava tutto un mondo in cui ferveva la sua immaginazione. Lei avrebbe dovuto occuparsi del restauro dell’opera e studiava davanti al cavalletto stando sempre di spalle.

Il profondo sentimento che li univa non si era mai spento, neanche dopo la morte di lei e
le sue ceneri erano “tutto quello che rimane, ma non è tutto quello che rimane”. Suo zio credeva che fosse importante liberare la propria immaginazione, accettando sia la nuova forma che prendiamo noi col passare del tempo e anche quella che prendono gli altri, anche se non ci sono più: “i morti bisogna trasformarli in essenze, non in fantasmi”, liberandoli dai vincoli del ricordo. Il labirinto dei ricordi in cui Manfredi si dibatteva e in cui si perdeva, gli faceva capire che ”cercare di dimenticare è il modo più pericoloso per ricordare”. Ripensava spesso con rimpianto a Flavia, il suo amore perduto e quel quadro legava le loro vite, come aveva fatto con Rolando ed Eugenia, quando egli le regala l’anello davanti a quello spazio vuoto. Quando egli rivede per caso Flavia, è come se il tempo si fosse fermato e poi la propria esistenza avesse ripreso il suo corso ed egli avesse ricominciato a vivere.

Profondo era sempre stato il legame che univa Manfredi a suo zio, che per lui era stato “un mare di notte”, ne aveva intuito il respiro, la profondità e il mistero e, negli ultimi momenti, egli voleva ”imparare a sciogliere la bellezza” nei suoi giorni. Nel momento in cui egli esegue una sonata di Chopin per lui, ciascuno dei due sentiva l’emozione dell’altro, immersa nella potenza e nella dolcezza della musica. Nel momento in cui Manfredi entra nella sua vecchia casa, piena di ricordi, di oggetti, si rese conto che ogni stanza rappresentava un mondo di affetti perduti. Col passare del tempo Manfredi diviene consapevole di essere diventato estraneo a se stesso e nutre un sentimento aspro di impotenza e un’invincibile sensazione di solitudine. L’incontro con una bambina, che
“appare e scompare” in alcuni momenti della sua esistenza diviene per lui un segno importante, che trasforma la sua vita che per la prima volta “si era messa al plurale” e la condivideva con un altro essere umano.

Suggestivo è il momento in cui la bambina aveva cominciato a correre fino alla camera di sua madre e si era sdraiata sul suo letto, gesto che nessuno aveva più fatto dopo la sua morte. Densa di significato è la lettera che Manfredi riceve dallo zio, in cui afferma di avere il desiderio di “varcare il confine della morte ad occhi aperti”, indicando anche la data, lo stesso giorno in cui fu rubata la Natività di Caravaggio, in cui scrive: ”nacque il mio dolore e il mio vuoto, ma nacque anche la mia felicità”. Erano come parole sospese nel “labirinto della memoria”, ma egli era costretto a bruciare la lettera, come gli aveva chiesto suo zio. Incamminandosi verso l’Orto Botanico, Manfredi si avventurava tra le pieghe di un
passato indimostrabile: la scoperta dell’ orologio dello zio lo fa rendere conto del valore che quel luogo aveva per lui. Entrando nella ”stanza delle memorie”, Manfredi veniva travolto dall’onda dei ricordi e stupito, si accorse che la bambina stava riordinando ogni cosa: il passare del tempo lascia le sue tracce e, dopo tredici giorni la bambina inizia a sorridere, gli stringe la mano e vedendo le sue lacrime gli dice di non preoccuparsi e rappresenta una sorta di catarsi del proprio dolore.

A cura di Ilde Rampino

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