“La Sanità in Irpinia è la prima industria, ma può crescere ancora”. Conte: il privato accreditato deve osare di più

INTERVISTA A MARIA CONCETTA CONTE DIRETTORE SANITARIO DELL'AZIENDA OSPEDALIERA MOSCATI DI AVELLINO: BASTA CIRCUITI CHIUSI, OCCORRE INTEGRARE I SERVIZI. Ospedale e territorio sono due facce della stessa medaglia e cade in errore chi immagina di considerarle due modalità assistenziali. Per questo, la predisposizione di un piano provinciale per la definizione della medicina territoriale che sia speculare all'organizzazione ospedaliera non è più rinviabile

Maria Concetta Conte

La sanità in Irpinia è la prima industria. Le imprese devono investire di più in quello che va considerato un modello in Campania. Lo sostiene il Direttore Sanitario dell’azienda Ospedaliera San Giuseppe Moscati, Maria Concetta Conte. Curare le fragilità nel percorso assistenziale tra ospedale e territorio rappresenta ancora il nervo scoperto della politica sanitaria. Gli sforzi prodotti fino ad oggi iniziano a produrre tiepidi risultati, mentre è necessario uno sforzo congiunto da parte di tutti gli attori ed esperti della materia per consentire due ordini di indirizzi: il primo riguarda l’azzeramento dei ricoveri impropri e una maggiore funzionalità degli accessi nei pronto soccorso; e la seconda attiene alla volontà di sperimentare un ingranaggio costruito a monte dalla rete dei tecnici e delle professionalità per garantire che il paziente dimesso dall’ospedale, avrà presso il suo domicilio tutta la rosa di cure di cui avrà bisogno, e la presa in carico di tutte le figure professionali previste dal suo caso clinico. Una strategia da mettere in campo c’è: “basta partire da una branca specifica e avviare la sperimentazione per apportare correzioni strada facendo” ha annunciato il direttore sanitario dell’Azienda Ospedaliera Moscati di Avellino Maria Concetta Conte a Nuova Irpinia.

Una piazza interna all’ospedale San Giuseppe Moscati di Avellino

Dottoressa Conte, il percorso assistenziale tra ospedale e territorio rappresenta ancora un nervo scoperto e si stenta a trovare la quadra per costruire l’ingranaggio con tutti gli attori e le figure professionali. Perchè?

“Intanto è un errore separare le due categorie di assistenza, ospedale e territorio non sono due monadi che legiferano per sè. La chiave vincente dell’assistenza in virtù del fatto che le risorse e il personale sono limitati e continueranno ad esserlo, quindi il modo migliore per utilizzare le risorse in modo razionale, e rispondere ai bisogni delle persone è integrare i sistemi”.

Continui.

“Gli ospedali sono deputati alle acuzie e il territorio non lo è, ma è pur vero che molte delle acuzie in un secondo momento diventano fragilità. La fragilità apre alle riacutizzazioni, che di per sè sono compito dell’ospedale, ma per evitare che si manifesti la riacutizzazione è necessaria una resa in carico territoriale insieme a quella ospedaliera”.

In che modo?

“Vanno fatti piani terapeutici individuali che iniziano già in ospedale e poi condivisi con il territorio che sa cosa può offrire, in modo tale che il paziente possa essere dimesso dall’ospedale nel tempo giusto, ma questo spesso non avviene”.

Perchè? Qual è l’ostacolo?

“La tendenza in sanità è che quando vengono licenziati dei protocolli si ritiene che la cosa funzioni, ma non è così. Un protocollo significa investire su un programma, ma se si pianifica una presa in carico integrata e questa avviene dopo 10 giorni dalla richiesta, allora significa che il protocollo non è stato applicato. Non è un valore aggiunto. C’è uno sforzo da fare da parte dell’ospedale, nel senso che si deve iniziare a pensare al territorio già all’atto del ricovero: se ho una persona anziana che ha una frattura, so già che dopo 5 o 6 giorni (salvo complicanze), devo dimetterlo. Già il giorno in cui viene operato si dovrebbe mettere in allarme la catena di montaggio, avvertire che esce e chiedere una valutazione congiunta per indicare una struttura per la presa in carico. Questa è integrazione”.

La sede dell’Asl in via degli Imbimbo

In questo momento invece i tempi sono dilatatati e si allertano i professionisti sul territorio solo in base a ipotesi di dimissione, che magari non vengono confermate nei fatti. 

“Spesso accade anche che le persone non vengono dimesse nei tempi stabiliti e restano più del dovuto nei reparti perchè i familiari non vengono a prenderli. Il sistema famiglia non sta reggendo: noi siamo stati costretti a nominare dei giudici tutelari alcune volte perchè non venivano a prendere i parenti. Questo determina un letto occupato e il pronto soccorso non riesce a rispondere come dovrebbe. Non si può ragionare di ospedali e territorio come due entità separate, è perdente”.

Nella politica sanitaria e nei piani ospedalieri licenziati negli anni la medicina territoriale occupa pagine e pagine, ma senza mai trovare concreta applicazione. Perchè?

“Diffido molto dei piani perfetti. I piani senza esperienza non possono essere adottati: preferisco un piano che zoppica e che viene raddrizzato strada facendo. I piani che prevedono mille interazioni ma non sono calati sul contesto non servono. Le Regioni Toscana ed Emilia Romagna sono state lungimiranti: hanno pianificato e dopo tre anni hanno aperto un monitoraggio, che gli ha consentito di verificare alcune criticità e che sono state corrette nel corso del tempo. Un piano poi, non può essere fatto senza gli attori.”

Quindi lei da dove partirebbe per raddrizzare la rotta?

“La partenza a 360 gradi la trovo infruttuosa e controproducente. Partirei per singole patologie o per singola branca. La singola patologia ti permette di aggiustare la presa in carico fine, quindi anche i tempi. Ad esempio se l’Asl non può venire prima di tre giorni a fare la valutazione integrata con i miei, si farà in modo di anticipare; se l’ospedale sa che ci sono problemi nel fornire protesi o altro, si accompagna all’Asl, e lo stesso deve valere per l’Asl che dovrà avere un via preferenziale. Sono tanti piccoli protocolli che messi insieme creano l’assistenza sul territorio. Voler partire su tutto lo scibile ospedaliero non è possibile”.

Ci vorrebbe una patologia o una branca che facesse da protocollo pilota. Quale potrebbe essere secondo lei?

“In questo momento si potrebbe applicare sulla frattura di collo femore, che è la più semplice. Invece un problema sentito è la riabilitazione cardiochirurgica, su cui dovremmo  stringere con la Don Gnocchi perchè si tratta di un reparto su cui abbiamo puntato molto, anche con il nuovo primario. Abbiamo liste di attesa e grandi aspettative. Ma si può partire anche dall’ictus: noi siamo centro stroke e hub di II livello quindi si può investire sulla rieducazione immediata, perchè prima si comincia la riabilitazione e più possibilità si hanno di migliorare la qualità di vita del paziente e il processo di guarigione”.

Don Gnocchi. Il direttore generale Francesco Converti

Con la Don Gnocchi vi siete già incontrati?

“C’è già stato un incontro a febbraio, e stiamo ragionando. Il Moscati dovrebbe essere il maggior fornitore di pazienti e intendiamo farlo. Quando dimettiamo un paziente, il pronto soccorso ha la possibilità di lavorare meglio e in maniera efficace. Tutto è un circolo”.

Il direttore scientifico della Fondazione Maria Chiara Carrozza nel suo intervento ha parlato di incentivo all’impresa sociale sul territorio, nell’ottica di un’offerta maggiore di servizi ma anche di occupazione lavorativa. Secondo lei si tratta di una strategia realizzabile in provincia di Avellino?

“Si tratta di un obiettivo perseguibile. Fino a tre anni fa ero coordinatore socio sanitario dell’Asl, quindi parlavo continuamente con i Piani di Zona Sociale. Alcuni sono abbastanza pronti a questo. Probabilmente se vogliamo parlare di impresa sociale non possiamo fare riferimento a imprese statali, ed è opportuno che gli imprenditori che fanno capo alla riabilitazione, alle Rsa, diventino un pò più coraggiosi”.

Il Presidente dell’Ordine dei Medici di Avellino, il dr. Franco Sellitto

L’impresa sociale è un volano di sviluppo per il territorio, utile al miglioramento della qualità della vita in generale. 

“La sanità è la maggiore industria del territorio, fra gli ospedali pubblici, il privato accreditato e altri, non possiamo rimanere chiusi nel nostro particolare perchè non è più il momento. Non abbiamo più i mezzi”.

Altra questione è poi la digitalizzazione avanzata, come è stato fatto riferimento dai vertici della Fondazione che però operano in Toscana, non nell’entroetrra campano che paga un pesantissimo digital divide.

“La digitalizzazione avanzata è un punto di forza su cui scommettere: al Moscati abbiamo la cartella clinica più avanzata della Campania. Dalla mia direzione sanitaria so chi c’è in pronto soccorso e qual è la terapia che stanno somministrando, qual è l’attesa e chi è ricoverato. Chiunque è abilitato a quel profilo ha accesso allo storico dei dati. Abbiamo migliaia di dati da fornire a chi vuol fare impresa perchè conosciamo quali sono le patologie prevalenti; anche se non abbiamo i data scientist, un data manager è facilmente intercettabile. Si tratta insomma di informazioni che se ci vengono richieste non abbiamo problemi a fornire: basta avere un pò di coraggio”.


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