«La principessa afghana» di Tiziana Ferrario. La lettura

L’autrice ci accompagna per mano per giungere alla conoscenza dell’Afghanistan, che un tempo rappresentava un’oasi di pace e di prospettive per tutti, persino per le donne

La Principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli di Tiziana Ferrario è un caleidoscopio di incontri, per dar voce a donne coraggiose e piene di dignità, che diventano, attraverso sforzi incredibili e battaglie perse, da cui scaturiscono speranze e desiderio di cambiare, le protagoniste della loro vita, baluardo fondamentale che rappresenta un monito per le più giovani, a non arrendersi mai.

La principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli di Tiziana Ferrario

Attraverso il dipanarsi dei loro racconti, l’autrice ci accompagna per mano per giungere alla conoscenza del loro Paese, l’Afghanistan, che un tempo rappresentava un’oasi di pace e di prospettive per tutti, persino per le donne: ”la mia è una terra stregata a cui qualcuno ha fatto un maleficio che nessuno è più riuscito a togliere”. Il giardino in cui la principessa Hamaira accoglie queste donne è pieno di luce e di colore, rappresenta il profondo desiderio di andare sempre avanti, superando, con la forza della volontà e con il grande amore che esse hanno per la propria terra un luogo in cui riposarsi, ma soprattutto trasmettere il profondo legame che hanno con le altre donne, gli insegnamenti che sono stati loro trasmessi e anche il tè caldo che viene offerto è un modo per invitarle a lasciarsi andare. Hamaira era la nipote preferita dell’ultimo sovrano afghano, re Zahir Shah che aveva governato per quarant’anni, dal 1933 al 1973 e dato vita ad una costituzione aperta, perchè era un uomo illuminato. Hamaira era stata educata a valori autentici, anche se a volte rivelava un atteggiamento ribelle e si sentiva “libera come il vento”. Era stata considerata alla stessa stregua dei maschi – atteggiamento estremamente raro a quel tempo – ma le era stato inculcato un forte senso di giustizia, di indipendenza e di responsabilità nei confronti di se stessa e degli altri e riceveva un compenso dal nonno per il suo lavoro con i cavalli che era diventata poi una missione. Il “giardino delle giovani ribelli” è il simbolo di una libertà agognata, in cui esse possono fare ciò che hanno sempre desiderato; nonostante le storie di dolore da raccontare, le libertà fondamentali negate e la paura degli attentati, le bambine rappresentano il futuro. Significativo è l’elemento della musica, mentre le suonatrici indossavano una maschera sul volto, perché non possono essere viste, anche se cantare e ballare erano parte della loro storia e suonare era un modo per esprimere i propri sentimenti. Le proibizioni dei talebani le avevano annullate in modo disumano. L’autrice dà voce a quelle donne che non hanno mai avuto paura e, attraverso la forza di volontà, si sono cimentate in lavori apparentemente impossibili per loro, come le scalatrici che sfidano quotidianamente il pericolo, le donne hazare che guidavano la loro comunità ed erano presenti alle trattative con i talebani, le sminatrici, come Namila, che faceva questo lavoro per garantire un futuro ai suoi figli, anche se sarebbe potuto sembrare un paradosso e la faceva considerare persino una madre snaturata o come Mariam che aveva paura di non poter insegnare, poiché aveva ricevuto molte minacce. Il concetto della maternità era cambiato: Malala raccoglie l’eredità di sua madre che è stata uccisa, perché ritenuta colpevole di essersi interessata di pianificazione delle nascite, uno scandalo all’epoca soprattutto per una donna. Lei aveva riaperto la scuola del quartiere quando i talebani erano stati cacciati da Kabul e, nonostante fosse stata costretta a sposare suo cugino, secondo una tradizione a cui aveva dovuto sottostare, aveva continuato a studiare, perché per una donna si tratta sempre di “una lotteria con la vita”, ma esse sono forti e fiduciose nonostante le difficoltà e camminano “su una corda sospesa nel vuoto”.
Vi è un altro giardino, lì accanto, dove si accolgono i visitatori di passaggio che attendono di poter tornare nel loro mondo, in cui vi sono gesti di una sapienza antica, come il ricamo, quadrati pieni di colori e stupefacente armonia, tovaglie impreziosite con fili d’oro e di seta: le donne dovevano reinventarsi la vita, avevano visto il dolore, ma in loro rimaneva vivo l’entusiasmo di quando il loro Paese era diverso e la pace lasciava libera la creatività. Esse volevano continuare, nonostante tutto, a trasmettere un messaggio positivo e costruttivo, come nel dedicarsi al cucinare e all’accurata descrizione delle ricette e dell’importanza della tradizione che non deve scomparire, poiché rappresenta una forma di dedizione verso gli altri, lo stare in compagnia e mantenere vivi i ricordi attraverso i sapori della propria terra.
Intanto la principessa Hamaira era tornata tra le giovani rimaste in silenzio ad accoglierle e ad ascoltare col cuore il loro dolore, esse che avevano dovuto superare pregiudizi, attacchi e derisioni, anche molestie, come Halima, una delle poche sindache dell’Afghanistan, perennemente osteggiata e minacciata, perché “l’equilibrio di una donna fa paura”, Abida e la sua infanzia rubata, ceduta in sposa a un vecchio per saldare un debito, giornaliste che non si arrendono e Suhaila, laureata in Medicina, che aveva iniziato a fare la chirurga, lottando contro tutto e tutti e soprattutto contro la sua famiglia. Intensa e struggente è la lettera che l’autrice, alla fine di questo meraviglioso libro, denso di pathos, ma anche di speranza, dedica alla principessa Hamaira, che l’ha sempre incoraggiata a scrivere del suo Paese, “dovevo raccontare le loro storie”. La immagina in un aldilà armonioso e sente che ha dovuto rendere omaggio a tutte quelle donne, perché “possiate essere ricordate per sempre e nessuno possa dire: io non sapevo”.

Ilde Rampino


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