“Il lapis del falegname” di Manuel Rivas

La storia di una memoria, ancorata ai rimpianti, al dolore e al ricordo di un oggetto, quel “lapis del falegname” che indica una specie di via per la salvezza, per liberarsi dalla violenza e dal rimorso

“Il lapis del falegname” di Manuel Rivas. E’ la storia di una memoria, ancorata ai rimpianti, al dolore e al ricordo di un oggetto, quel “lapis del falegname” che indica una specie di via per la salvezza, per liberarsi dalla violenza e dal rimorso. Esso diventa il “trait d’union” di varie vite e accosta i ricordi prendendoli per mano. Herbal non parlava quasi mai e narra a Maria, in un bordello della Galizia, il suo passato, fatto di mille atrocità e violenze, durante i suoi trascorsi di carceriere, durante la guerra civile spagnola, di cui è complice e testimone, delle quali, nel corso del racconto, non sembra dispiacersi o sentire rimorso. Herbal diventa la voce che narra, egli stesso attraverso il racconto. È come se divenisse lui stesso protagonista del racconto e, attraverso i suoi occhi, man mano si scioglie il nodo della narrazione.

“Il lapis del falegname” di Manuel Rivas

Herbal, era figlio di contadini poveri e ha sempre dovuto lottare per ottenere qualcosa: in lui albergano due personaggi, due aspetti della sua personalità e della sua lucida follia: oscilla tra l’esser angelo o carnefice, a seconda del fantasma che si impadronisce della sua mente: il pittore o l’Uomo di Ferro. il pittore si era procurato un lapis da falegname e ritraeva gli altri senza sosta, cogliendone i profili, raffigurava a volte anche i malati mentali, per una sorta di fascino nei confronti dell’abisso, poiché voleva ritrarre “le ferite invisibili dell’esistenza” e descrivere lo sguardo di coloro che non guardavano. Diceva che la cosa più difficile da dipingere era la neve, quel pulviscolo informe che il vento faceva roteare nel vento e ricopriva tutto con la sua coltre di silenzio. Egli si può considerare “ombra che si rifugia nell’ombra”, cova invidia e rancore, uno strano sentimento di odio, ossessione ma anche ammirazione e rispetto verso il dottore, tanto che si fa trasferire nel suo carcere per essergli sempre vicino. Lo odiava e al contempo lo invidiava per il sentimento d’amore che lo univa alla sua fidanzata, Marisa: si amavano molto e lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, era disposta persino a morire per salvarlo. Egli spiava l’amore tra la donna, splendida e coraggiosa, che desidera e di cui si sente dolorosamente indegno, e l’uomo, coraggioso e fiero e onorevole come lui non sarà mai, di cui diventerà il carceriere, oscillando tra odio, gelosia, invidia e ammirazione non voluta verso chi, riguardo alla sua condanna, era convinto che “la giustizia appartiene alla sfera delle forze dell’anima”. Il dottore, avversario politico del regime franchista, viene arrestato e davanti al plotone di esecuzione ostentava indifferenza: per due volte riesce a salvarsi. In carcere si prodigava nei confronti di chi aveva bisogno, chiamava tutti i detenuti per nome e conosceva tutte le loro storie; li incoraggiava anche a ricordare gli affetti e si prestava anche a scrivere per loro alcune lettere. Egli era convinto che “i ricordi erano una sorta di cicatrici nella mente” che non si possono cancellare e che se il “filo” che noi produciamo, nel corso della nostra vita, si intreccia con gli altri, può formare un tessuto memorabile. Il secondino Herbal si sentiva bene quando era un uomo dimenticato nella sua garitta, mentre i suoi fantasmi si allontanavano. Con il lapis da falegname nell’orecchio, egli seguiva le parole che gli suggeriva il pittore, secondo cui gli “esseri viventi e gli oggetti hanno una veste di luce”, ma a volte “Uomo di ferro” prendeva il suo posto nella mente della guardia nei periodi di assenza del pittore e lo spingeva a fare cose crudeli, come quella di denunciare il dottore. E il ricordo diventa vivo, per quell’amore malinconico, invidiato e al contempo desiderato, per quella crudeltà e il male fatto agli altri, ma in verità soprattutto a se stessi. E l’amarezza che prende nel cuore, quella sorta di messaggio del dolore diventa un richiamo e la “presenza” invisibile del pittore che suggerisce le mosse di una vita che non si vorrebbe, diviso a metà tra il proprio desiderio di avere una vita normale e l’invidia della bontà e dell’umanità dell’altro che ti rende cieco e crudele, ma pensando a ritroso, ti fa vedere la cecità e la disperazione della tua anima.

Ilde Rampino


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