“E venne chiamata due cuori”, è una avventura suggestiva. L’autore Mario Marlo Morgan mette in discussione i fondamenti dell’identità culturale e sociale di ognuno di noi.
LA LETTURA. Un periodo trascorso lontano dalla civiltà, almeno quella che intendiamo noi occidentali, a contatto con una tribù di aborigeni australiani nel lontano Outback, vissuto dall’autrice di questo meraviglioso libro, diventa un’esperienza indimenticabile che ci offre numerosi spunti di riflessione. L’impegno sociale della protagonista dedicato alle minoranze etniche nelle varie parti del mondo e soprattutto in Australia, in cui gli aborigeni sono discriminati, la trasporta in una nuova realtà che la condurrà a poco a poco alla scoperta di sé. Appena giunta a destinazione, credendo di essere stata invitata per il conferimento di un premio, si rende conto che i suoi abiti, molto eleganti, non sono assolutamente adatti per il viaggio in jeep attraverso l’Outback. L’arrivo presso la tribù degli aborigeni la pone davanti a una richiesta per lei assurda: le chiedono di spogliarsi e abbandonare tutti i suoi oggetti che poi verranno bruciati e ciò le crea una sensazione di incognita e di timore, perché non sa cosa aspettarsi. E’ circondata da persone con acconciature strane, ma che rivelano sguardi intensi e penetranti: si definiscono la Vera Gente e vivono assolutamente a contatto con la natura. L’esperienza che lei vivrà a contatto con loro la cambierà totalmente e fin nel profondo e la metterà in relazione con il suo essere più autentico, sottoponendola a prove che le sembreranno assurde, ma di cui a poco a poco percepirà il vero significato. Ricorda le parole che qualcuno le aveva rivolto al suo arrivo ”il motivo per cui lei è venuta in Australia è il destino e qualcuno che deve incontrare che è nato nello stesso anno e nello stesso momento in cui è nata lei”, ma queste parole le appaiono oscure. Viene accolta dagli indigeni e comincia a condividere ogni momento con loro, che non parlano tra loro, ma utilizzano la telepatia, poiché sono convinti che la voce sia fatta per cantare, per celebrare e per guarire. Con il passare del tempo comincia a comprendere il loro modo di essere e apprezzarne le particolarità, impara che ognuno ha un nome che cambia nel corso della propria esistenza ed è legato alla scoperta dei propri talenti. Anche il suo corpo si adegua e sviluppa un’incredibile resistenza alla fatica e alla mancanza di acqua, dormendo anche per terra e nutrendosi di piante e piccoli animali che rappresentano il contributo della terra alla loro sopravvivenza, in un continuo scambio con la natura che li circondava. A poco a poco la protagonista comincia a perdere la nozione del tempo e del luogo, ma attraverso il contatto con la Vera Gente si rende conto che la loro consapevolezza era in contatto con la consapevolezza universale dell’umanità, essi non hanno nulla da nascondere e non hanno paura di aprire la mente per ricevere i messaggi del mondo. Lei ha perso apparentemente le certezze su cui si basava la sua vita, non poteva certo curare il proprio aspetto, ma aveva compreso che senza specchio era libera di sentirsi bella. Attraverso gli insegnamenti degli indigeni che cominciavano in un certo senso a sentirla come una di loro, lei aveva appreso che ”noi diamo sempre qualcosa a tutte le persone che incontriamo, ma scegliamo noi cosa dare”.
Le parole della Vera Gente non scaturivano in modo automatico, ma dopo attenta riflessione affermando che ”ciascuno è il guaritore di se stesso” e non bisogna lasciare nulla in sospeso provando sentimenti negativi nei confronti di un’altra persona, ma bisogna chiudere il cerchio, poiché solo liberandosi delle cose vecchie si può far spazio alle nuove, come insegna il serpente che si libera della sua vecchia pelle. A volte qualcuno metteva le proprie capacità a servizio del gruppo se era per il bene di tutti, poiché straordinaria era la pienezza con cui essi vivevano la loro vita senza nessun attaccamento alle cose materiali. Nel suo percorso spesso si era trovata in difficoltà e aveva chiesto aiuto, ma poi, attraverso lo sguardo di coloro che la circondavano, si era resa conto che avrebbe dovuto vivere da sola la propria esperienza, come quando, in preda alla sete e non riuscendo a soddisfarla, straordinariamente ”riesce a diventare acqua”. Presso gli indigeni, il trascorrere del tempo ha lo scopo di permettere alle persone di diventare migliori e più sagge e di esprimere sempre meglio il proprio essere, ma lei faceva fatica a comprenderlo, perché in quanto Mutante – come era stata definita – misurava il tempo in funzione di se stessa. La Vera Gente non festeggiava i compleanni, ma solo quando giungeva il momento di riconoscere uno specifico talento. Alla fine del suo percorso le attribuiscono il soprannome Due Cuori, perché poteva amare la Vera Gente e il suo modo di vivere, restando fedele al suo. L’abbraccio dei suoi compagni in questa incredibile avventura le riscalderà il cuore e assumerà, dentro di sé, un altro nome “Lingua che viaggia” per trasmettere la propria esperienza agli altri, mentre le resterà sempre nella mente una preghiera: ” Dio mi conceda la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso cambiare e la saggezza di distinguere le une dalle altre”.
A cura di Ilde Rampino
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