Carmine De Blasio, Direttore del Consorzio Piano di Zona di Atripalda

«Gli interventi sociali camminano di pari passo con l’evoluzione della società e delle comunità locali. Oggi si presentano nuovi bisogni ai quali dare risposte, ma possiamo dire che l’Irpinia in questi anni è riuscita, in linea di massima, a consolidare una efficace organizzazione territoriale, ed è considerata un riferimento in una regione chiave del Mezzogiorno, quale è la Campania». E’ quanto sostiene Carmine De Blasio, direttore del consorzio dei servizi sociali di Atripalda e dell’azienda consortile di Baronissi e componente della cabina di regia delle politiche sociali di Palazzo Santa Lucia, oltre che dirigente politico.

Qual è la condizione che si trova a vivere la Campania?

«E’ ormai da tempo la regione d’Italia con il più alto tasso di popolazione giovanile, anche se nelle province interne prevale l’invecchiamento. Può essere sicuramente considerata il cuore del Sud del Paese, con forti potenzialità e tutte le contraddizioni e le difficoltà endemiche di quest’area. Negli ultimi anni però le politiche sociali hanno fatto importanti passi in avanti, con notevoli investimenti. Gli strumenti a disposizione sono sicuramente aumentati, anche se vi è una disomogenea strutturazione organizzativa».

Carmine De Blasio, in un convegno, affianco all’assessore regionale alle politiche sociali, Lucia Fortini

In quale settore specifico si sono concentrati gli interventi e con quali effetti concreti?

«Ultimamente si è parlato molto di povertà, forse anche perché in passato si è ignorato il fenomeno. La Campania è la regione con il numero maggiore di poveri. E questa è sicuramente la questione più delicata sulla quale intervenire e concentrare le attenzioni. Fino all’introduzione del Rei, Reddito di inclusione, l’Italia era insieme alla Grecia, l’unico Paese d’Europa a non avere una misura specifica di contrasto della povertà, salvo la breve parentesi in cui si era sperimentato il Sia, Sostegno per l’inclusione attiva. L’impatto dell’intervento è stato notevole. Ma è bene fare una precisione, per evitare che si ingeneri confusione e si alimentino inutili e strumentali polemiche».

Faccia pure…

«Quando parliamo di povertà, nel nostro contesto, non ci riferiamo ad una condizione di miseria. Viene infatti considerata povertà assoluta quella di una famiglia di quattro componenti, con due figli, che abbia un reddito inferiore alla soglia di 1.100-1.200 euro mensili, tenendo conto di tutti i parametri previsti dall’Isee. Una situazione, quindi, diversa da quella che viene vissuta da chi proviene dalle aree geografiche disperate del Sud del mondo. Lo dico perché troppo spesso si solleva pretestuosamente il presunto problema di un doppio binario, che penalizzerebbe i cittadini italiani. Ovviamente non è così».

Non c’è dubbio che le condizioni, ma anche le esigenze di un cittadino della società occidentale siano differenti. Fermo restando che la difficoltà a vivere e sopravvivere, stando al di sotto di quella soglia, è assolutamente concreta in questo contesto. Per non parlare di pensionati al minimo che si trovano in condizioni di estrema indigenza e hanno difficoltà ad arrivare alla metà del mese e a mettere un piatto a tavola.

«E’ certamente così. Non stiamo sottovalutando il livello di bisogno di ampie fasce di popolazione, che sono in continuo aumento. Anzi, bisognerebbe fare di più».

In che cosa consiste il Rei?

«La specificità di questa misura è che prova ad aggredire il problema da più versanti. Si compone infatti di due parti: un beneficio economico, erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta Rei), e un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà. C’è una presa in carico dell’intero nucleo familiare. Il progetto prevede l’individuazione degli obiettivi che si intendono raggiungere, dei sostegni di cui il nucleo necessita, degli impegni da parte dei componenti il nucleo a svolgere specifiche attività, come ad esempio l’attivazione lavorativa o la frequenza scolastica. Ma il dato che emerge, in linea con quello europeo, è che non sempre con il lavoro si supera la condizione di povertà».

Come mai?

«C’è una povertà strutturale, legata alla condizione sociale, che diventa quasi ereditaria, trasmettendosi di generazione in generazione. Occorrono quindi nuovi e più articolati strumenti di interventi, per agire su questo aspetto».

Le modalità di accesso a queste misure, la stessa presa in carico da parte dei servizi sociali, non rischiano di trasformarsi in un limite, in un ostacolo per quelle famiglie, che non sono abituate ad una condizione di indigenza, che vivono con pudore questa fragilità e che non vogliono essere etichettate. risultandogli difficile chiedere un intervento di assistenza. Si parla tanto dei cosiddetti “nuovi poveri”. Senza dimenticare che la precarizzazione del lavoro ha modificato ed ampliato la sfera del bisogno. Non crede?

«E’ proprio così. Il rischio dello stigma sociale è un problema: non ci si rivolge ai servizi sociali per non essere “etichettati”. Una difficoltà che si avverte anche in altri ambiti, ad esempio quello dell’alcolismo e delle dipendenze».

E come si può risolvere?

«Con l’affermazione che le misure di intervento sono un diritto, non una forma di assistenza. D’altra parte, il Rei vuole essere proprio ciò. Nel corso di questi anni infatti non prevede più requisiti familiari. L’altro modo per superare il problema è l’universalità della misura. L’introduzione del modello Isee però ha comportato la fuoriuscita dal campo d’azione dei servizi sociali di diverse tipologie di persone o di famiglie».

Quali e perché?

«Chi lavora a nero e non può documentare il proprio reddito e teme gli accertamenti degli uffici, preferendo quindi evitare l’accesso ai servizi. Questo non significa che non vi sia una condizione di bisogno o che non sia giusto trovare delle forme di sostegno».

Il Rei però è ormai destinato ad avere vita breve. L’attuale governo ha previsto la graduale introduzione del reddito di cittadinanza. Cosa cambia?

«Il contributo sarà superato dal reddito di cittadinanza. Bisognerà invece comprendere se il lavoro di supporto sociale sarà completamente sostituito dall’attività che svolgeranno i centri per l’impiego o se si deciderà di mantenere anche portare avanti un monitoraggio sociale».

Che ne pensa di questa novità?

«Non sono prevenuto rispetto al reddito di cittadinanza. Bisognerà valutarlo sul campo. Spero che i nuovi strumenti consentano di allargare la platea di cittadini che ne beneficeranno e gli importi asegnati. Con il Rea sono stati stanziati complessivamente in tutta Italia, nella prima annualità 2 miliardi, la seconda 2,5 e la terza 2,8. La nuova misura prevede la triplicazione dei fondi a disposizione».

Al di là della povertà, qual è l’emergenza sulla quale bisognerà intervenire, soprattutto in Irpinia?

«Le aree interne vivono particolarmente il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. Chiaramente, anche in questo caso, cambiano dinamiche e tipologie rispetto al passato. Non di meno occorrono forme di sostegno. Indubbiamente il rafforzamento delle cure domiciliari, che determinano pure un risparmio rispetto all’ospedalizzazione, ma anche politiche che consentano un invecchiamento attivo. E poi l’uso di dispositivi tecnologici che migliorano la qualità della vita e la capacità di risposta assistenziale: il telesoccorso, la telemedicina, il telecontrollo».

Su quali fronti, invece, si sono raccolti i risultati più evidenti?

«Lo sforzo più grande è stato l’infrastrutturazione per la prima infanzia: sono stati aperti molti asili nido e micronido».

In che modo si riesce ad attivare una rete sociale efficiente e moderna?  

«Attrezzandosi sotto il profilo organizzativo. Gli ambiti territoriali che non hanno una propria struttura autonoma trovano difficoltà ad attivare i servizi. Invece è possibile incrementarli disponendo di uno staff capace di predisporre le progettazioni e rispondere ai bandi di finanziamento».

Si parla talvolta dei costi delle strutture, che sarebbero eccessivi.

«Non è così. Senza strutture non solo non sarebbe possibile erogare i servizi, ma – come dicevo – nemmeno intercettare le risorse, che non arrivano necessariamente in maniera automatica. Delle strutture fanno parte figure professionali di supporto che costituiscono esse stesse un servizio. Senza dimenticare il risvolto occupazionale che questo settore determina per tanti operatori qualificati».

Qual è la specificità della provincia di Avellino sotto il profilo sociale?

«Irpinia e Sannio conservano ancora livelli di protezione sociale alta, che andrebbe conservata. Resiste fortunatamente la cultura del prendersi cura dei familiari e delle persone prossime. La comunità svolge un ruolo attivo».

 

 

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