Palazzo Chigi, sede del governo nazionale

La resa (non ancora incondizionata) del Governo (ad un’Europa pronta a condannare l’Italia ad una inedita e pesantissima procedura di infrazione sul debito) spinge verso la crisi nella maggioranza, preludio di elezioni anticipate.

Nella logica dialettica (mediatica) dei due contraenti il Contratto di Governo, la strategia vincente è stata individuare il colpevole cui addossare le responsabilità di un flop. Fino a marzo bastava attirare la rabbia popolare per la mancanza di lavoro, per i troppi sbarchi degli aspiranti rifugiati, per le diseguaglianze sociali, su chi era al governo del Paese, quindi sul Pd e sui suoi alleati. Ad un semestre da allora il rischio per la Lega e il Movimento Cinque Stelle è di presentarsi alle europee con pochi argomenti da mettere nella campagna elettorale. Quando nell’aprile 2019 sarà passato un anno pieno dal voto, attaccare i Democratici non basterebbe più, anche perché la stagione di Matteo Renzi e del suo cosiddetto Giglio magico sarà archiviata dal nuovo corso sancito dalle primarie. Si dovrà fronteggiare un malcontento sociale che in quel momento rischia di essere ancora maggiore rispetto a quello di un anno fa. Sbarchi a parte, che non incidono sulla qualità della vita di chi non ha lavoro o percepisce pensioni insufficienti, il benessere degli italiani non è migliorato, anzi. Il clima di sfiducia ha fatto rallentare gli investimenti privati, mentre su quelli pubblici la pregiudiziale “costi-benefici” ha di fatto paralizzato con gli appalti anche l’occupazione nel settore delle costruzioni.

Il Palazzo di Montecitorio in una suggestiva immagine
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In uno scenario di questo tipo, che alla prova dei fatti potrebbe rivelarsi ben peggiore in primavera, ai due contraenti il Contratto di Governo non resterà che addossarsi le responsabilità vicendevolmente, interrompendo la collaborazione nella speranza di poter riprendere quota nel Paese. La resa di Bruxelles con il taglio del deficit programmato esclude anche di poter inveire contro l’Europa. I due Vicepresidenti del Consiglio hanno sperimentato la lezione impartita a Tsipras dall’Unione negli ultimi anni. Non sono tanto gli impegni tra gli Stati e Bruxelles a imporre un rigore sul debito in ogni caso sancito dagli accordi, quanto il Fondo Monetario Internazionale, cioé le leggi del mercato globale.

Per queste ragioni i due leader  dovranno puntarsi l’indice contro, se vorranno rilanciare la propria leadership oltre la consolatoria ed effimera tabella di sondaggi che non certificano mai il numero di chi non esprime opinione.

Le forze politiche avvertono il rischio di elezioni anticipate di ben quattto anni e pensano a prepararsi. In questo quadro ha destato polemiche il pensiero espresso da Massimo D’Alema sul sito della fondazione che presiede, Italianieuropei, a proposito del dibattito aperto nel Pd a sinistra. C’è chi dimentica che Nicola Zingaretti, candidato alla segreteria dei Democratici, è un aderente a quella Fondazione e non certo da oggi. Di seguito la parte introduttiva della analisi di Massimo D’Alema, poi il link per continuare a leggerla sul sito della Fondazione.

Massimo D’Alema, già Presidente del Consiglio dei Ministri tra il 1999 e il 2000

Per una nuova prospettiva politica

di Massimo D’Alema*

Finalmente sembra aprirsi una discussione nella sinistra e nel Partito Democratico sulle ragioni della sconfitta del 4 marzo e sulle prospet­tive sul futuro. C’è voluta la spinta di quelle migliaia di militanti della sinistra che, dopo mesi di frustrazione, sono tornati in piazza. Certamente si può e si deve ripartire da questa generosa volontà di tornare in campo, dalla disponibilità a impegnarsi, dal bisogno di tante persone che la sinistra torni a esserci e a dire la sua sulle prin­cipali questioni del paese. C’è voluto molto tempo perché tornasse a manifestarsi qualche segnale di vita, tuttavia credo si debba guardare con rispetto alla vicenda travagliata e confusa che il Partito Demo­cratico e la sinistra italiana nel suo complesso stanno vivendo dal 4 marzo. Sarebbe troppo facile abbandonarsi a un giudizio liquidato­rio, ma non può essere questo il modo di ragionare di chi abbia a cuore non solo gli ideali e i valori della sinistra ma anche l’avvenire della nostra democrazia.

È evidente che il lungo marasma non è stato soltanto il frutto della sconfitta elettorale. Il problema è che dopo il 4 marzo non si è im­boccata la via più limpida e ragionevole e cioè quella di una discus­sione seria e libera sulle ragioni della sconfitta. Il maggior partito del centrosinistra avrebbe dovuto promuovere un congresso aperto chia­mando a discutere tutte le forze e le persone interessate al futuro del paese e al destino del campo progressista. Anche chi dal PD si è sepa­rato non ha saputo o non ha potuto proporsi come promotore di una nuova stagione per la sinistra. Hanno pesato la scarsa forza elettorale, frutto di un’operazione tardiva e improvvisata, e anche l’incertezza circa la prospettiva che già all’indomani delle elezioni è affiorata tra i protagonisti. Bisogna quindi riconoscere che lo stato di confusione e l’incapacità ad allineare una nuova prospettiva hanno pesato e pesa­no sull’insieme del centrosinistra e questo ha finito per paralizzare l’i­niziativa politica e aggravare la crisi. Sembra anche abbastanza vacuo l’argomento secondo cui la sinistra, anziché chiudersi in discussioni divisive, dovrebbe oggi impegnarsi in una dura opposizione. Certo che è necessario fare opposizione, ma perché sia efficace deve essere in grado di prospettare un’alternativa per il paese; sembra difficile considerare credibile la lotta nel nome di scelte politiche e di una leadership che i cittadini hanno travolto qualche mese fa. Per ora non si intravede un progetto in grado di dare una risposta alle domande socia­li, alla richiesta di tutela e di protezione che si sono manifestate con le elezioni politiche. Senza un nuovo progetto i clamori, gli ostruzionismi e persino le manifestazioni mobilitano i militan­ti ma non allargano l’area del consenso. Se oggi l’opposizione potesse presentarsi con il volto di una nuova leadership e con un’indicazione diffe­rente per il paese, che sappia opporre una propo­sta forte non solo alla deriva presente ma anche agli errori del passato, la situazione dell’Italia sa­rebbe già ora molto diversa. Anche per questo ci vuole coraggio politico, chiarezza e lealtà, perché le furbizie e le omissioni non aiuteranno a dare quel segno chiaro di cambiamento senza il quale sembra impossibile ricreare una sintonia con il paese. Ricordiamo ciò che accadde nel 1994, quando la sinistra fu travolta da Berlusconi, e poi nel 2001, quando alla sconfitta elettorale si aggiunse la contestazione dei gi­rotondi a un intero gruppo dirigente. Ci fu discussione, battaglia politica e i cambiamenti necessari aprirono la via alla ripresa, all’al­largamento delle alleanze e alla riconquista del consenso.

(*): Presidente della Fondazione Italianieuropei

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