“Impossibile” di Erri de Luca

Ilde Rampino recensisce uno dei romanzi più coinvolgenti dello scrittore partenopeo. A quarant’anni dal processo che li ha visti uno nei panni del pentito che rivela i nomi, l’altro in quelli dell’accusato, due uomini si incrociano su un sentiero di montagna poco battuto

A cura di Ilde Rampino

Due piani di un racconto, tra realtà e sentimento, che pone il protagonista a cospetto con una inchiesta giudiziaria che coinvolge il suo passato e pone l’uomo, Erri, di fronte a una scelta: la possibilità di essere difeso da un avvocato o ammettere un suo presunto omicidio. La sua ricerca interiore e al contempo fisica di luoghi sconosciuti –   la montagna era la sua vita e il suo mondo – lo immerge in un clima di sospetto. Il suo imbattersi in una persona ferita, chiamando i soccorsi, diventa un’azione che pone degli interrogativi, poiché il ferito era un collaboratore di giustizia che lo aveva accusato e la sua morte, frutto di una disgrazia, si trasforma in un’accusa infamante. Il suo profondo senso di libertà, ma anche il suo anelito al silenzio, lo porta a scalare le vette delle montagne, in cui gli sembra di trovare se stesso: ”il mio è dare le spalle a tutto, mi butto indietro il mondo intero”, perché ci si inoltra su un territorio in cui ci vuole paura e riverenza, bisogna rispettare la montagna. Gli incontri, come quello dell’uomo della cui morte sarà accusato, seguono una linea precisa, anche gli eventi più strani, dovuti al caso o quelli a cui si fa fatica credere, perché “impossibile è la definizione di un avvenimento, prima che succeda”. L’interrogatorio dinanzi a un magistrato che cerca di trovare un movente per il presunto omicidio sembra non turbarlo, forte della sua determinazione e nel suo aderire a principi in cui ha sempre creduto e che non tradirebbe mai – profondo è il suo rancore verso chi ha voltato le spalle ai propri compagni di lotta in nome di uno sconto di pena.

E’ convinto che chi ha commesso un tradimento, ha tradito anche se stesso ed è fondamentale il senso profondo di appartenenza a un gruppo o a un’idea, poiché considera insignificanti le individualità all’interno di un gruppo. Gli ideali in cui egli ha sempre creduto fanno parte di lui e del suo essere e ”l’uomo della Cengia” che non viene mai nominato, è qualcuno, che al di là del suo passato, ha incrociato la sua strada ed egli, nonostante tutto, ha mostrato lealtà nel salvarlo, perciò rifiuta la legittima difesa: “sto qui da imputato e non da penitente”.

Nella cella di isolamento, scrive alla sua donna, lontana, ma che sente vicina nel ricordo, di cui conserva una foto di bambina, dallo sguardo ironico, che gli fa compagnia e che lo trasporta, in quei momenti, attraverso le parole, a una realtà diversa: ”con te ho imparato la parola amore e i giorni uova di Pasqua con una sorpresa dentro”. Con lei riesce a essere sincero, a evitare le proprie reticenze per non esprimere tutto, immagina di stare in una barca a vela e di guidare verso un approdo e di parlare “a voce viva con me stesso”. Vive nel ricordo e in un certo senso nella presenza fisica di lei, ricalcando nella memoria le premure di due che stanno insieme, senza avvertire gelosia, ma in un certo senso pronto ad accettare il finire o il trasformarsi del sentimento di lei. La sua condizione di isolamento, di cui conia un particolare anagramma “mai lo sento”, impara a “farsi amico il tempo” e nel corso delle domande che l’avvocato gli pone, muovendogli le accuse, lo spinge addirittura ad andare in montagna per poter comprendere le sue sensazioni. L’avvocato non riesce a sconfiggere il suo “miscuglio di risolutezza e determinazione”, sembra una partita che non si conclude. Alla fine sarà rilasciato, ma il protagonista non sarà né un vincente, né uno sconfitto, perché si rende conto che ognuno fa una propria scelta e ne paga le conseguenze.

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