‘La stanza dei casti amanti’, nuovo libro di Aldo de Francesco

La recensione di Mino Mastromarino. Una famiglia blasonata, un Palazzo, una camera inaccessibile. Un gioiello di prosa narrativa, connotato da plurimi e ben stratificati indici di letterarietà

Lo scorso mercoledì 26 aprile, presso il Circolo della Stampa di Avellino è stato presentato il nuovo libro di Aldo de Francesco dal titolo “La stanza dei casti amanti. Una storia familiare”, per i tipi della Iuppiter Edizioni. Ne hanno discusso con Mino Mastromarino: Gianni Festa, direttore del settimanale “Corriere dell‟Irpinia”; Franco Genzale, direttore di Irpinia Tv; il giornalista Ottavio Lucarelli.


La stanza misteriosa. A proposito dell’ultimo libro di Aldo de Francesco

di Mino Mastromarino
‘La stanza dei casti amanti. Una storia familiare’ di Aldo de Francesco

Una famiglia blasonata, un Palazzo, una camera inaccessibile. Si tratta di un gioiello di prosa narrativa, connotato da plurimi e ben stratificati indici di letterarietà. È uno di quei libri di cui si può parlare prescindendo o, comunque, non partendo dalla fabula, dai fatti ivi narrati. Non ha indice, non si avvale di suddivisione per paragrafi. Espediente stilistico che l‟io narrante, coincidente con l‟Autore, ha adottato per agire sulla cronologia dei fatti, per ‘manipolarla’. Il tempo della Storia indica infatti l’effettiva durata degli stessi; il tempo del Racconto è la selezione spazio-temporale ad arbitrio dell‟Autore. La coerenza e l’intelligenza del testo restano affidate alla trama delle sole parole, in luogo della semplice successione degli eventi. Sicchè, lo Scrittore muove dal ricordo d‟infanzia del secondo dopoguerra di un «borgo così teneramente riassuntivo del proprio paesaggio: un campanile in alto, la chiesa accanto, intorno grappoli di case che scendono a valle come tralci e la montagna dietro, immensa e protettiva. Quasi lasciato lì per farsi raccontare». Per poi risalire immediatamente alla fine del ‘500, allorquando messer Bartolomeo de Francesco descrisse, nel proprio diario, l’insediamento della sua famiglia in Chiusano di San Domenico. Esempio di sapiente anacronìa che non serve solo a trattenere l‟interesse di chi legge, ma anche a imprimere plausibilità storica al racconto, nel rispetto del patto finzionale con il lettore. Nel dissidio interiore della nobildonna Irene Pironti su come affrontare l‟affaire di Max e Fanny, l’Autore ravvisa l’anelito della Napoli postborbonica ad agganciare la Belle Epoque, la modernità parigina. Perciò, l’enigma della stanza chiusa, in particolare il predicato di castità dei presunti amanti, funziona da baricentro del tempo narrativo. È un felice dispositivo di immaginazione promiscua, di mistero e di curiosità emotiva, sul modello del «Carteggio Aspern» di Henry James. Il libro è e resta un romanzo, un’opera di letteratura non interrotta, come auspicava qualche anno fa Giorgio Ficara. Non è un romanzo storico, né una banale saga familiare. Facendo tesoro della genialità narrativa di Natalia Ginzburg, Aldo de Francesco ha abilmente disinnescato le insidie di uno stucchevole e sempre incombente autobiografismo, delineando con precisione figurativa protagonisti e luoghi senza indulgere nella retorica della nostalgia. Così emerge – proustianamente – il personaggio di nonna Marietta, ‘un fuso di energia’: «Sempre a sera , però, prima che fosse lei a ricoprirmi di nascosto per non darmi l’idea di una protezione eccessiva , sconsigliata dai galatei di una sana educazione, ero io a farlo». Gli ‘sbrodeghezzi’ del Lessico famigliare si congiungono letterariamente alla clausola di Zia Pippinella, ribadita a difesa dell‟insindacabile autorità del fratello Tiberio: «Se l’ha detto il nostro Tiberiuccio, così è. E non si chiosa!». La cifra stilistica del libro risiede nell‟alto livello semantico che ne innerva le pagine. Gli spazi per l‟Autore diventano ‘esedre’ e ‘amboni’: «Di pomeriggio, nel tablino che fungeva da soggiorno e stanza da pranzo, sporgente sull’esedra del cortile …». La liturgica ospitalità di nonno Peppo si esercitava sullo scalone d’ingresso, formato da una rampa unica che, al primo ballatoio, si biforcava in due scale a rispettivo invito delle due divergenti ali del raffinato edificio. Ed ecco le cechoviane sorelle di Tiberio, le zie Fifina, Pippinella e Lauretta, la cui vicenda esistenziale è compendiata nella perspicua considerazione che «allora l’anagrafe decideva tanti destini». Insomma, Aldo de Francesco scrive di un Meridione non ruralista e si iscrive nell‟aureo, seppur negletto, filone: con quest’ultimo libro – al pari di altre opere come Il Ciliegio di Montemarano (Roma, 1992) – ha disegnato un profilo antropologico delle genti meridionali altrimenti vitale e immune da retrotopìe e rassegnazione. La lettura del libro promette un incontro di seduzione.


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‘La stanza dei casti amanti. Una storia familiare’ di Aldo de Francesco

 

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