“La montagna leone” di Giampiero Somma

La diversità di razza che crea spesso un senso di distacco insormontabile, il livore nei confronti di qualcuno che incontriamo ormai spesso nelle nostre strade e che ci richiama inevitabilmente ad un confronto è il tema attorno a cui si dipana una storia che ha il sapore di un incontro e in un certo senso di rivincita

“La montagna leone” di Giampiero Somma. La diversità di razza che crea spesso un senso di distacco insormontabile, il livore nei confronti di qualcuno che incontriamo ormai spesso nelle nostre strade e che ci richiama inevitabilmente ad un confronto è il tema attorno a cui si dipana una storia che ha il sapore di un incontro e in un certo senso di rivincita. Il protagonista Sandro vive una situazione di estremo benessere, la sua famiglia è molto benestante e la moto Ducati che Sandro possiede è il simbolo della volontà dei genitori di assecondare ogni suo capriccio che lo spinge ad assumere spesso un atteggiamento di superficialità e di sfrontatezza nei confronti degli altri, come quando al semaforo un extracomunitario stava provando a vendergli la sua merce, una presenza fissa, eppure fastidiosa, una di quelle persone che erano arrivate con l’ennesima “carretta del mare”.

Lo sguardo del giovane è attratto improvvisamente da due ragazzi di colore che corrono e si infilano in una traversa. In quel momento avviene tuttavia qualcosa di particolare e di inaspettato: quando la polizia gli fa delle domande, Sandro non dice che li ha visti e indica loro una direzione sbagliata. L’incontro, qualche giorno dopo con il giovane fermo al semaforo, è come se rappresentasse un punto di svolta. ”Mi chiamo Ishrael”: una breve frase, l’inizio di un contatto, il tentativo di aggressione da cui viene salvato e la stretta di mano finale. Ishrael aveva imparato bene l’italiano e lo invita nel capannone dove abitavano e in cui ognuno era benvenuto. La mancanza di acqua corrente, le condizioni estremamente disagiate in cui erano costretti a vivere, ma a cui si adattavano, senza recriminare, fanno riflettere Sandro, rendendolo consapevole di essere entrato in un territorio per lui inesplorato: per la prima volta comincia a guardarli negli occhi e a “vedere”: quel capannone in cui tutti vivevano assiepati era una sorta di comunità che teneva unite le loro esistenze alla propria patria e alla propria famiglia, ascoltava ”la voce di un popolo” che aveva subito tante violenze ed era stato costretto sempre a nascondersi, ”erano merce non persone”, avevano vissuto delle ingiustizie e in loro vi era tanta rabbia.

Nei loro occhi il ricordo del loro sguardo disperato nel buio pesto che si estendeva
oltre la prua del barcone in cui erano radunati: i profughi erano in mare da giorni, in condizioni disperate quando avevano intravisto una bassa massa scura che si profilava all’orizzonte. In prossimità dell’isola erano stati costretti a calarsi in acqua e raggiungere la terraferma: la folta vegetazione di pini che li circondava li aveva fatti sentire persi in una realtà strana, non avevano niente, ma era nata immediatamente una mutua
solidarietà tra simili. Al cospetto di quelle persone, Sandro cominciava a chiedersi: “Io da che parte sto?”. Inizia a recarsi spesso in quel capannone e si rende conto che quel ponte fra due mondi e due realtà così diverse e apparentemente lontanissime e che non si sarebbero potute incontrare forse poteva rappresentare un avvicinarsi, attraverso
la conoscenza, una mano aperta ad accogliere, abbattendo il muro dei pregiudizi. Assiste alla preghiera comunitaria, li osserva, studia i loro volti, in cui si percepiva la tensione per la ricerca continua di lavoro per riuscire a vivere, un gruppo di persone “forzato da un destino comune e cementato dalle avversità che si era trasformato in comunità e che accoglie con amore una nuova vita che nasce, una bambina a cui viene dato il nome di “Freedom”, libertà, quella che avevano perso e forse non avrebbero più ritrovato.

Si rende conto che ”ognuno di loro è una storia” e, sedendosi accanto ad Ishrael è colpito dal suo rapporto con il nonno che gli aveva trasmesso riti e credenze della sua gente, un rapporto viscerale con la terra, imbevuto di tradizione. Sandro era consapevole che ”ora stava davvero ascoltando”, cominciava a sentirsi uno di loro e accetta la “sfida” che Ishrael gli propone: essere veramente uno di loro, anche nell’aspetto e negli abiti. Camminando per le strade, comprende realmente il disagio e la sofferenza di queste persone e la loro
rassegnazione a una perfetta invisibilità che diventa terribile, quando, mentre pulisce i vetri a un semaforo, si accorge che al posto di guida vi è suo padre che non lo riconosce: una sensazione terribile che gli fa da specchio e gli fa capire quanto sia cambiato e quanto i fantasmi delle sue idee siano state prive di fondamento e retaggio di un’educazione rigida e insensibile al dolore altrui.

Sandro si rende conto di provare una profonda invidia per Ishrael, per le sue convinzioni e la sua determinazione, per il fatto che egli aveva un ideale a differenza di lui e dei suoi coetanei e rimane molto turbato quando sente le urla di disprezzo nei confronti di un giocatore di colore nel corso di una partita di calcio e le condizioni pessime, in cui essi sono costretti a lavorare, in un clima di violenza che un nulla bastava ad accendere, mentre alcuni vendevano il loro onore e la loro libertà al miglior offerente. Quante cose aveva imparato in così poco tempo, venendo a contatto con una realtà che si era sempre rifiutato di voler vedere: aveva compreso che “i clandestini sono i nuovi schiavi” che non possono neanche essere curati in ospedale. Decide di donare il suo sangue ad uno sconosciuto di colore e quel gesto lo mette improvvisamente di fronte ad una scelta drastica: si ribella al padre e comprende che “non doveva mai permettere a nessuno di dirti chi essere”.

L’incendio al capannone e il sacrificio di Ishrael per salvare una bambina gettano Sandro in una profonda disperazione e dolore per la morte di un amico, fa arrestare i responsabili e realizza il sogno di Ishrael: si unisce a Medici senza frontiere e va in Sierra Leone, la
“montagna leone” com’era chiamata e rivede in un bambino a cui è stato dato il nome del suo amico una mano da stringere col cuore.

A cura di Ilde Rampino

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