“Seletudine” è un’antologia di racconti che Gerardo Ceres propone come testimonianza della cultura identitaria di Caposele tramandata attraverso la storia orale. Un lavoro paziente e dettagliato che lui stesso ha definito un “cantiere aperto” e che trae spunto da conversazioni apparentemente leggere che hanno impegnato pomeriggi sulle panchine di Piazza Sanità. Storie, aneddoti e personaggi che costituiscono l’impalcatura della cultura popolare e che hanno fatto la storia di Caposele per tutto il corso del ‘900. Un patrimonio di consuetudini e costumi di una società affetta da “seletudine” e “selecentrismo” insieme, che si traduce in una declinazione antropologica unica nel suo genere.

Il merito di Gerardo Ceres non è stato soltanto quello di avere restituito quel “mastice” che plasma una comunità dialogante, ma anche quello di avere decodificato fatti che fino ad oggi erano stati soltanto bisbigliati all’orecchio, relegati al pettegolezzo, nella potente gabbia sociale del “pare brutto”. I racconti raccolti nel libro sono stati già pubblicati su “La sorgente” a testimonianza del rapporto antico con il giornale di Caposele, e oggi rafforzano il ruolo sociale che cementa radici e consente a tutti di ri-conoscersi.

Gerardo Ceres

Prima di addentrarsi nei meandri dei racconti, l’autore propone una impagabile descrizione del silaro, precondizione necessaria al proseguimento della lettura, che consente di vivere il palcoscenico in maniera totalitaria. Il silaro è poco socievole perché abitante “del fianco della montagna”, ma “affetto da selecentrismo, come se non ci fosse altro orizzonte se non quello afferrato da Piazza Sanità. E’ un conservatore, poco avvezzo al cambiamento e avverso all’integrazione dei foresti. Preferisce osservare e commentare le gesta altrui, ma non si fa coinvolgere”.

La seletudine dunque, è una caratteristica che si eredita alla nascita e contraddistingue la genia che abita alle falde del Paflagone. Nelle parole dell’autore è una particolare messa a fuoco sulle cose, non una semplice lente di ingrandimento. E’ un connubio di fattori dettati dal microclima e dalla posizione geografica che fa della seletudine un connotato antropologico specifico non rinvenibile altrove. In effetti gli stessi personaggi raccontati e descritti dall’autore sono cristallizzati nel tempo e nello spazio e, sugellano ognuno a suo modo, una precisa data storica, un evento indimenticabile, un cambiamento epocale.

La narrazione proposta consente di vivere due momenti. Il primo propone fatti e personaggi che ricostruiscono una visione locale e globale, e un secondo propone aneddoti che enfatizzano le peculiarità di alcuni personaggi, rendendo immortali alcune espressioni e gesta, tanto da diventare tormentoni e modi di dire assorbiti nella dialettica quotidiana. In tutti i racconti non manca mai l’affetto nei confronti dei personaggi citati, trattati come la naturale estensione di ogni caposelese, che ora in avanti dovrà avere consapevolezza della sua storia e della sua genia.

“Seletudine” di Gerardo Ceres, presentazione a Caposele

I fatti e gli aneddoti narrati, carichi di ironia intelligente e saggia lucidità, rappresentano quella microstoria in grado di sagomare la storia nazionale e i grandi fatti del ‘900. Caposele è stata teatro di importanti incontri. Qui Giuseppe Ungaretti accompagnò nel 1939 il massimo responsabile tecnico dell’acquedotto pugliese, così come viene raccontato l’esercizio del delitto d’onore, il confino imposto dalla polizia e la nascita del Partito Comunista a Caposele. Emergono anche figure di una società sbiadita dal tempo, come il banditore, e il ruolo del medico condotto nel racconto della “cuccuvaia”. Qui vengono narrate le esigenze degli agricoltori che usavano il verderame, la funzione delle bancarelle, i giovani prestati al fronte, lu pustalu che rappresentava l’unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno.

Lo stile proposto da Gerardo Ceres richiama la narrativa di Andrea Camilleri, e non come si può banalmente immaginare per la grafica e i colori della copertina che richiamano la Sellerio, quanto per la capacità di riscostruire i personaggi attraverso le voci, la cadenza e il ritmo delle espressioni. C’è infatti un racconto in particolare che replica l’adagio camilleriano, “L’ombrello della verità”, da suggerire alle compagnie teatrali del posto per tradurre il racconto in partitura teatrale. Non manca una influenza pasoliniana, nella descrizione dei contesti, che è anche condivisione e sentirsi parte integrante di quello spirito di comunità che oggi sembra essersi affievolito e disperso nella modernità. Il lavoro di ricerca dell’autore è come dicevamo in premessa “un cantiere aperto”: più si ha consapevolezza del passato e più ampio sarà l’orizzonte a cui guardare per il futuro.


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