“Vite maledette” di Vito Molinari

"Cinque autobiografie apocrife di artisti maledetti, geni della musica e della pittura, ma privi del dono di saper vivere”. Con la prefazione di Andrea Tarabbia, l'autore propone la narrazione degli "Irregolari della vita, depressi, folli, assassini, assassinati"

“Vite maledette” di Vito Molinari. Ripercorrere le vicende della propria vita e farne dono agli altri, semplicemente, senza artificio o interpretazione, mettendosi a nudo senza infingimenti, offrendo se stessi, senza paura, forse addirittura impunemente: sono le parole che cinque personaggi che hanno fatto della loro vita in un certo senso la rappresentazione dell’arte e vogliono trasmettere al lettore. Le loro sono vite brevi, spezzate nel fiore degli anni dalla malattia o da una morte violenta, ma soprattutto a loro “mancò il dono di saper vivere”. Essi ridisegnano un percorso conosciuto, ma dall’interno e considerano le varie vicende come tappe di un labirinto in cui spesso si sono persi, uomini segnati da una profonda tensione interiore che si è concretizzata attraverso le manifestazione di un’arte lontana dagli schemi stabiliti dalla società.

Una vita in cui tutto era stabilito dal destino e dalle convenzioni, quella di Gesualdo da Venosa, anche il suo gesto estremo, l’omicidio di sua moglie Maria d’Avalos e del suo amante Fabrizio Carafa. Le sue parole ”sono stato costretto” celano la grande amarezza per un’azione “necessaria”, dettata dal proprio rango, per difendere il suo onore, il segno di una volontà al di fuori di lui a cui non avrebbe potuto sottrarsi. Il suo unico interesse era diventata la musica, la composizione dei suoi madrigali che gli davano fama, ma che in realtà rappresentavano il rifugio per sfuggire alla propria insoddisfazione. Il suo castello di Gesualdo era diventato un centro musicale importante, egli avrebbe dovuto sentirsi apprezzato, perché veniva riconosciuto il suo valore artistico, ma in lui permaneva un continuo stato d’ansia nella speranza che la sua richiesta di perdono venisse accettata da un Essere Supremo, da cui si sentiva giudicato: la musica sacra quindi rappresentava qualcosa di elevato spiritualmente che lo innalzava ad una dimensione che potesse redimere i suoi peccati. La sua morte gli donerà la pace che aveva sempre invano cercato.

Lo spirito inquieto di Caravaggio è la cifra distintiva dell’arte ma anche della vita di questo grande artista, che ha sempre cercato il pericolo per sentirsi vivo, attraverso atti violenti e risse. Ottenne varie commissioni, ma egli “dipingeva come un invasato” e creò opere meravigliose, lontane anni luce dai canoni stabiliti e dense di tormento interiore. ”Non mi sono mai pentito delle mie intemperanze”: una confessione schietta, incurante del giudizio altrui, consapevole che il valore intrinseco delle sue opere rimanda proprio a una continua lotta contro i suoi fantasmi, da cui non ne esce mai vincitore, ma che rappresenta con la forza della sua arte pittorica. La peculiarità dominante della luce “intrisa di tristezza e di dolore” che caratterizza le sue opere è l’elemento cardine di una pittura intensa che scardina ogni limite, si rivela priva di orpelli ed estremamente realista.

Un artista che faceva della trasgressione il suo vessillo era Alessandro Stradella, musicista italiano di epoca barocca, noto per le sue composizioni religiose e profane, in cui notevole importanza era data alla ritmica musicale e al lato ironico e burlesco dei testi. Conduceva un’esistenza molto libertina ed ebbe numerose avventure galanti. L’”Orfeo assassinato”, come fu chiamato, trovò la morte il 25 febbraio 1682 a 42 anni assieme alla sua amante Hortensia, in Piazza Banchi a Genova, forse su mandato del nobile Giovan Battista Lomellini che sospettava una relazione tra la sorella e il compositore, che le impartiva lezioni di musica. Nel raccontare la sua storia, Stradella usa un linguaggio molto colorito che ben si adatta alla naturalezza con cui viveva la sua passione per le donne e non cerca assolutamente giustificazioni, accettando l’accusa di immoralità.

L’animo di Amedeo Modigliani, pervaso da un’incessante polemica antiborghese, lo rendeva indifferente alle regole della società, portandolo all’isolamento. La  trasgressione e il rifugio nelle droghe lo facevano vivere in un mondo folle. Aveva un disperato bisogno di essere apprezzato e dipingeva con rabbia: il suo rapporto con le donne era dettato da inesauribile frenesia e desiderio di pace interiore, anche se non riusciva a fermarsi nella sua corsa folle verso la scoperta del suo essere profondo che tuttavia celava agli altri. Era circondato da donne che amava con passione, che tuttavia considerava come “appendici alla sua vita di artista”, voleva possedere la loro anima che riversava nei suoi dipinti, in quei nudi pervasi da malinconia. La morte lo colse ad appena 37 anni, quando era appena giunto alla gloria e spezzò quel filo sottile di speranza a cui si era inconsapevolmente aggrappato tutta la vita.

Struggente è la storia di Antonio Ligabue, che si presenta alla porta del ricovero, con in braccio un coniglio bianco e a tracolla l’attrezzatura di pittore, dicendo che “aspetta di morire”, come avverrà in realtà poco dopo. Ha 65 anni e ricorda la sua infanzia misera, in cui ha patito la fame: era figlio di padre ignoto, poi fu riconosciuto dal suo patrigno Laccabue. Il suo aspetto non era certamente gradevole ed era emarginato da tutti, soprattutto dalle donne con cui non riuscì mai ad avere un rapporto e da cui cercava “almeno un bacio”. Tratteggia sulla tela, attraverso visioni poetiche, soggetti di animali nella pianura padana, il suo luogo nativo, ma presto comincia ad essere colpito da crisi nervose e riversa la propria angoscia e rabbia interiore in autoritratti aggressivi e la pittura diventa la liberazione dai fantasmi della sua mente. Viene rinchiuso varie volte in manicomio e, durante i suoi periodi a casa, dipinge con furia per trovare pace e compra motociclette rosse per immaginare di dare un po’ di calore alla sua vita.

A cura di Ilde Rampino

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