“Contro un mondo senza amore” di Susan Abulhawa

La scrittrice palestinese torna in libreria con un nuovo racconto sul dramma mediorientale e propone la storia di Nahr che vive in una cella di pochi metri quadrati: è stata arrestata dall'esercito israeliano e adesso è una prigioniera politica

“Contro un mondo senza amore” di Susan Abulhawa. Dall’interno del Cubo, in cui è stata condannata a vivere come prigioniera, accusata di terrorismo, Nahr vede passare sull’onda terribile dei ricordi, tutta la sua vita, in una successione di flash che le fanno analizzare la sua vita sotto la lente implacabile del passato:  il Cubo è fuori dal tempo, è una voragine spalancata senza nome né presente, futuro o passato che la donna riempie con l’immaginazione, non tralasciando niente, nemmeno i particolari più violenti e dolorosi. Talvolta arrivano i reporter e gli attivisti per i diritti umani e le pongono domande a cui lei non vorrebbe rispondere, perché sa che non capirebbero. La vita le ritorna in mente attraverso le immagini, gli odori e i suoni, ma mai attraverso i sentimenti, perché non riesce a provare niente: nel Cubo non c’era altro che il suo cielo e il tempo si insinuava dall’esterno e diventava come un macigno. Nelle ore infinite di solitudine, ripensa alla sua infanzia, quando si rivolgeva a sua nonna in modo aggressivo e non sopportava che le dicesse cosa fare: aveva perso suo padre, ma sua madre si occupava di sua nonna, perché l’aveva promesso a suo marito, anche se egli non aveva fatto altro che tradirla, fino all’ultimo, ma lei l’aveva sempre giustificato davanti agli altri, anche se soffriva terribilmente. La terra nativa di sua madre era la Palestina.

E’ ancora una ragazza, quando viene attratta da Mhammad, nonostante fosse più grande di lei: era un eroe della resistenza del Kuwait. Si sposano ma il loro matrimonio è caratterizzato sin dall’inizio, da profonde crisi e a diciannove anni egli la lascia e fugge: si ritrova sola e rivive nella sua mente il breve periodo in cui hanno vissuto insieme e il disagio che lei provava, quando ripeteva spesso il nome “Tamara” e lei si era sentiva ferita nel profondo. Si sente respinta e abbandonata e in seguito scopre che egli ha rubato tutti i soldi dal loro conto. Trova lavoro come commessa e conosce Um Buraq che le fa incontrare degli uomini, proiettandola in una realtà sconosciuta e lontana anni luce dal suo modo di essere, ma lei accetta per aiutare la sua famiglia e per finanziare gli studi di suo fratello Jehad. Si sente diversa e riflette sul fatto che ha assunto tre nomi: Yaqoot, come è stata battezzata assurdamente con il nome dell’amante di suo padre, Nahr, come è sempre stata chiamata in famiglia e Almas nel suo “lavoro” a contatto con gli uomini. Si rende conto di vivere una vita ai margini, ma ciò in un certo senso la affascina, doveva solo ballare, dedicandosi alla sua passione, attraverso cui il suo corpo sembrava si muovesse da solo ed esprimeva se stessa, la sua voglia di vivere, ma dietro cui nascondeva anche il suo dolore e il suo travaglio interiore. Man mano era stata costretta ad intrattenere rapporti sessuali con loro e “ognuno di loro aveva comprato una piccola parte di me e se l’era portata per sempre”, avrebbe voluto smetterla con quel lavoro, ma non poteva. Il momento più difficile e doloroso di quel periodo era stata la sera in cui era stata invitata con altre ragazze presso una villa abitata da persone rispettabili e si era trovata in mezzo a uomini ubriachi e fu vittima di una violenza di gruppo. Decise di rinunciare per sempre a quella vita e cominciò a produrre lozioni per il corpo e creme idratanti, con l’aiuto di Um Buraq che, nonostante le contraddizioni nel loro rapporto, le offrì una nuova possibilità.  Nahr va incontro a varie peripezie e violenze, conserva a fatica il suo equilibrio. Torna a casa e osserva sua madre che comincia a ricamare caftani e pian piano diventa molto brava, una sorta di artista, poiché conosce i vari significati dei disegni per gli abiti delle spose: era importante, poiché custodiva la loro cultura e la loro storia. Nahr le nasconde il suo segreto, per non turbarla.

Conosce Bilal, il fratello di suo marito, completamente diverso da lui e sua madre che la accoglie con benevolenza,  nonostante sia andata là per divorziare. A poco a poco scopre le varie facce di Bilal: solitario, impegnato con il lavoro di panettiere, detenuto, l’ammaliatore e feroce combattente, ne è affascinata e colpita, ma le fa anche paura, quando le rivela l’accesso segreto, nascosto sotto il negozio, per nascondersi in caso di pericolo. Prova una strana emozione quando, leggendo in una lettera che le ha inviato, comprende il legame che sente per lei, il desiderio di rivederla e viene colpita dalle parole: “il nostro posto” e avverte dentro di sé un sentimento di appartenenza mai provato prima. Si sente completamente assorbita dall’amore e il loro rapporto si rafforza quando lei gli confessa tutto, anche le cose più sordide e apprende da lui il segreto inconfessabile di suo marito riguardo al nome “Tamara”.

Alla fine Nahr viene liberata dalla sua prigione e rivede Um Buraq che l’aveva aiutata in passato, nonostante le avesse fatto fare cose terribili. L’arresto di Bilal con l’accusa di essere un collaborazionista le fa provare uno stato di profonda frustrazione e quando, tempo dopo,  riceve una lettera in cui attraverso un alfabeto cifrato comprende che Balil è vivo e vuole rincontrarla, capisce di essere stata un’esca per gli israeliani che l’hanno esibita al mondo. E’ consapevole, tuttavia, che anche se non potrà mai rivedere Bilal e incontrarlo alla luce del sole, prova in quel momento “una gioia pura e perfetta”.

A cura di Ilde Rampino

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