“Lei stava lì” di Francesca Sassano. Il dolore di una madre per un figlio scomparso nel nulla, una vicenda privata che si inserisce nella Storia, in uno degli eventi più terribili del Novecento, segno di una crudeltà senza limiti: il dramma dei “desaparecidos” in Argentina negli anni ’70-80. La scrittrice ci fa toccare con mano la disperazione della protagonista, ci fa penetrare nel suo animo, nella sua difficoltà di piangere, come se le sue lacrime fossero un macigno che la sovrastano. Non riesce a darsi pace e non si arrende, non comprende la rassegnazione e chi non la comprende, “come se un figlio in meno potesse essere un parto dimenticato”. Il silenzio, il non sapere dove sia suo figlio dilania il suo cuore, i suoi ricordi “arrivavano anche ad occhi chiusi”: una madre non tace mai, il suo dolore “è nella sua pancia”. Suo marito le sta vicino, sa che lei andrà fino in fondo. Significative le sue parole : “Tu non hai paura, io sì” per riconoscere la forza e la determinazione di una madre, che “ha dovuto perdere un figlio per capire il senso di una vita” e lotta con le altre madri, e’ lì con loro “per essere tutte la stessa cosa”, per condividere i loro sentimenti più profondi, davanti al palazzo del governo per chiedere il destino dei loro figli, perché “questa guerra è la negazione della pietà”.
Struggente è la muta richiesta di amore da parte degli altri due figli, che le rimproverano la sua indifferenza, pensano che ella ami il loro fratello scomparso, “sottratto alla vita” più di loro, ma lei vorrebbe che essi capissero perché ”il loro futuro deve appartenergli”, fanno tutti parte di lei e la sua assenza deve essere condivisa. Suo marito ha occupato per gli altri suoi figli tutti i suoi spazi, gli è grata, perché non li ha fatti sentire troppo soli in quel momento difficile, mentre il dolore scavava la distanza dagli altri più che le rughe sul suo volto.
Pregnante è il ricordo della sua vita con lui, della mancanza di dialogo tra loro, lei non lo conosceva né sapeva niente di lui: ora vive nel silenzio di una casa in cui credeva che ogni cosa fosse al suo posto, mentre ora di suo figlio “ha solo il nulla”. Si sentiva “una povera donna cresciuta in un guscio di mura” che l’aveva protetta dal male e dalle violenze, il suo dolore “era una coperta stretta, non c’era posto che per lei”. Sentiva che suo figlio era troppo diverso, anche dai fratelli, ragionava quasi “come un vecchio”, aveva saputo tutto e lo aveva conosciuto troppo tardi attraverso le parole dei suoi amici e colleghi che le avevano detto che egli era stato arrestato nel suo ambulatorio psichiatrico dove accoglieva i poveri e i disperati.
La presenza nel proprio cuore e in quello delle altre madri dei giovani scomparsi diventava dolore intimo ed universale, ma esse provavano anche la sensazione di girare a vuoto e quando la polizia tentava di fermare i loro cortei e intimavano loro di “circolare”, per loro questa parola assumeva un altro significato, più profondo, “stare in circolo”, unite per sempre. Tutte loro si sentivano come una persona sola, si erano assunte con determinazione l’impegno di non abbandonare i propri figli, dovevano avere la forza di ascoltare e vedere , a volte scrivevano sulle banconote “hanno portato via mia figlia”
Emergono, nelle pagine del libro particolari dolorosi e descrizioni spesso crude delle torture e inaudite violenze che la scrittrice sembra vivere sulla propria pelle, mentre gli altri sembravano ignari e indifferenti al loro dramma, come avveniva anche per alcuni uomini di chiesa. Tutte loro, le madri di Plaza de Mayo erano chiamate “locas” (le pazze), erano madri di tutti i figli scomparsi, madri perseguitate, che tuttavia continuavano a lottare, portando con sé e mostrando le fotografie ingrandite dei propri figli, “fantasmi di una memoria che si vorrebbe cancellare”: la sottrazione di un figlio è “un dolore composto”, ma una madre ha bisogno del suo dolore. Le loro parole non saranno vane, anche se non dovessero giungere a nessuno, ormai sono nell’aria, perché, come affermano loro, ”abbiamo rovesciato il senso del silenzio e ne abbiamo fatto l’immagine della voce”.
Le parole di suo figlio, piene di coraggio e determinazione ”un’aquila vola in alto per il solo gusto di vivere” sono sempre vive in lei, ma l’incontro con la sua donna, che non aveva mai conosciuto, la pone di fronte a una decisione drastica: accetta di non vedere mai suo nipote e di non farne parola con nessuno, poiché “ogni parola sarebbe rimasta lì e alla fine giunta a lui”. E come in uno strano gioco del destino, si inserisce la storia di suo nipote, una sorta di ponte con il passato, che viene a contatto con una vicenda che non gli appartiene. Incontra suo nonno e decide di vivere con lui, sfogliando le foto a lui sconosciute, perché riguardano suo padre.
La solitudine del vecchio, ormai ammalato, è rischiarata dalla sua presenza, poiché, da quando sua moglie e scesa in piazza per chiedere disperatamente notizie di suo figlio, veniva una donna ad occuparsi di lui. Con sua nonna non si sentiva in pace, ma neanche in guerra, le rimprovera di non aver accolto sua madre. Il ragazzo avvertiva una parte di sè che credeva non esistesse, un legame profondo con il suo passato. Significativo il suo incontro con una ragazza da cui si sente subito attratto, prende due tazze dalla casa di suo nonno, per offrirle il tè nel locale in cui egli lavora, per stringere un contatto con lei. Lei gli dà un quaderno, il diario di sua nonna requisito dal padre di lei, un militare che l’aveva arrestata: era tra le sue carte e quando lei gli aveva fatto delle domande, egli aveva risposto che aveva solo eseguito degli ordini. Lei aveva provato una sensazione stranissima:”ero sua figlia ma non volevo esserlo”. Avrebbe voluto scomparire, allontanarsi e si era rifugiata nella musica, aveva cambiato nome e identità ed era giunta in quel locale per tenere un concerto e aveva incontrato quel giovane. Era stato quasi un richiamo, era stata colpita da una frase che aveva scritto quella donna che non aveva mai conosciuto, ma a cui si era avvicinata col cuore: “essere madre di tutti i figli, buoni e cattivi”: si era riconosciuta nelle sue parole, lei che si era sentita privata di una famiglia. “Lei stava lì. In mano il suo destino. Per se stessa”: le ultime parole di questo meraviglioso libro, scritto con profonda intensità, un monito per tutti.
A cura di Ilde Rampino
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