Gli scarti della società ne “La luna”, spettacolo di Davide Iodice

Ilde Rampino racconta il percorso di indagine antropologica, sociologica e poetica del regista, che parte dai rifiuti, gli scarti e il rimosso della collettività. Davide Iodice ha messo in scena un lavoro partito nel 2018 al Napoli Teatro festival Italia che si prefigge l'obiettivo di analizzare la società e la nuova frontiera dell'umanità

Gli scarti della società ne “La luna” è un percorso di ricerca e creazione a partire dai rifiuti, gli scarti, il rimosso di una collettività è il viaggio interiore portato avanti dal regista Davide Iodice, la cui “materia di indagine – come ha sottolineato il regista – è lo scarto, il rifiuto, nella sua accezione simbolica, affettiva, emotiva e poetica: ciò di cui si vuol liberare o che si è “messo da parte” e, estendendo il senso, il rifiuto agito e subito”. Per l’allestimento di questo spettacolo, Davide Iodice ha raccolto tante testimonianze di persone che gli hanno consegnato una serie di oggetti, come “rose appassite di amori violenti, chiavi di stanze chiuse dove è successo qualcosa di doloroso e dove non si è più tornati, una gabbietta lasciata vuota da un uccello che si è squarciato il petto nel tentativo di liberarsi”, oggetti che si frantumano nel ricordo e diventano simulacro di un dolore che scava dentro di sé e lascia annientati. Attraverso il Prologo, il regista ci conduce subito in un mondo quasi irreale, in cui si raccolgono, accumulati in modo disordinato su una sorta di bancarella, pezzi di un caleidoscopio immaginario in cui ognuno è latore di un discorso doloroso che ha lasciato tracce e ferite, offrendo a tutti l’immagine di un mondo antico e ormai lontano nei ricordi, che ha perso per strada i propri frammenti di una realtà non più attuale. L’apparizione di una Luna ferita, qualcosa che racchiude gli scarti di una vita, ma anche la violenza e i soprusi illumina con la sua luce pallida il mondo ormai in frantumi e in un certo senso artefatto, in cui ognuno non sa dove andare e vaga alla ricerca di un punto fermo da cui ripartire. L’atmosfera, nel corso dello spettacolo, si carica di silenzi angoscianti e si è colpiti dalle urla della “Scimmia del malessere”, figura irreale che richiama gli antichi stregoni ma che si impone sulla realtà frammentata, lanciando dal punto più alto, come una prospettiva esterna e remota, come se non appartenesse al senso più profondo dell’interiorità dell’essere, ”stracci” come elementi di vite perdute. Il percorso doloroso si esplica attraverso le parole dette che si scagliano sulla scena, raccolte dagli attori che rappresentano in modo magistrale e intenso il nascondimento di una parte che ci fa soffrire e che si vuole celare agli altri e gli oggetti reali, come il crocifisso di legno e la siringa stanno a rappresentare il simulacro della perdita di identità e dignità dei personaggi, che non sono altro che noi stessi, raffigurati in fattezze strane e spaventevoli. Le ferite che ci hanno inferto durante l’infanzia si concretizzano in gesti eterei, ma eseguiti con uno sforzo e una tensione interiore: le tracce dolorose che hanno segnato l’anima della “ballerina” sono evidenti nel suo tentativo di eseguire il suo esercizio, realizzando così il proprio sogno con leggerezza, mentre gli altri che indossano una maschera fanno chiasso intorno a lei. Ognuno è racchiuso nel proprio dolore e quella maschera rappresenta una distanza posta tra sé e gli altri, un insieme di fragilità e forza, per non farsi ferire ulteriormente. In mezzo a loro si staglia il personaggio di Fabrice che indossa una parrucca blu, visibile agli altri come qualcosa di diverso che vuole uscire perché ha bisogno di far emergere la parte di sé più vera. Estremamente struggente e profondamente rivelativo di una condizione di disagio interiore è il personaggio della Sposa, il cui viso è coperto da un velo, ma il suo corpo è circondato da un involucro di plastica che soffoca e trattiene il dolore e le lacrime. Carnefice e allo stesso tempo vittima di se stesso è il personaggio vestito di nero, un’ombra crudele che infierisce su tutti, soprattutto sulla sposa, donandole fiori secchi come elementi di un rituale di violenza e inganno. La sua aggressività è esplicita, ma quando gli viene tolta la maschera egli si rivela nudo e fragile, senza più reazioni. Significativo è il “rituale di pulizia” con lo spazzolone che rimanda ai ragazzi fermi ai semafori che ripuliscono lo sporco non solo fisico, ma anche di una realtà passata che si vorrebbe cambiare e del disprezzo che le parole degli altri gettano su di noi. Un senso di solidarietà e di pietà è tratteggiato nel personaggio dell’uomo che trasporta il barcone, disperato tra i disperati: in realtà è l’unico che si avvicina agli altri e cerca di salvarli con delicatezza e sforzo, accogliendo chi non ha più niente e si lascia andare, come la Sirena, la cui esistenza viene calpestata attraverso l’illusione dell’amore e la violenza. “La Luna” è un pentagramma di emozioni represse, in cui si inseriscono frammenti di parole che hanno bisogno di raccontarsi, violenze indicibili e trasformazioni in elementi aggressivi che celano le parvenze sfilacciate dell’interiorità: i personaggi sembrano cercare aiuto, ma in realtà si rincorrono e si sfiorano soltanto, fino ad incontrarsi sul finire delle illusioni.

Ilde Rampino

 

 

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