“Ascolta la mia voce” di Susanna Tamaro

A cura di Ilde Rampino

Un colloquio intenso, fatto di domande che a volte rimangono senza risposta e che diventa quasi una preghiera, inanellando parole dense di dolore e di rimpianto. Ritrovare in un passato attraverso scritti, gesti strani ed accorgersi che il passato è fatto di storie che coinvolgono altri esseri, altre solitudini e altre assenze. E proprio l’assenza di un volto caro o di un sentimento diventa qualcosa da cui partire per rigenerarsi, per ritrovare dentro di sé una scintilla di luce attraverso i ricordi, collegandoli a momenti che assumono un profondo significato, che hanno lasciato tracce nella sua infanzia, come il taglio dell’albero, che rappresenta per la protagonista la distruzione tangibile di un passato, con le radici che abbracciano il terreno.

La sua caduta ha trascinato con sé molte cose, mentre le cicatrici rimangono a graffiare la propria anima. Gli eventi e gli incontri diventano specchi, capaci di farci conoscere una parte ignota di noi stessi e a volte si vorrebbe ritrovare ciò che si è perduto nella casa che è “il luogo giusto dove tornare”. Ma il dolore, accumulato negli anni, si è trasformato in odio verso sua nonna e la ragazza non trova pace nella quiete, della campagna, dilaniata da una tensione interiore: ”avevo bisogno del dolore per sentirmi viva”.

La sua ricerca disperata di una foto della madre che la nonna ha fatto scomparire per non rivangare continuamente il dolore, portandosi dietro il peso dei gesti non fatti e delle frasi non dette e ciò provoca una sorta di degrado della casa e anche della propria anima. La memoria della donna comincia a popolarsi di fantasmi e diventa preda di manie di persecuzione, fino a una fine tragica, ma silenziosa, seguita poco dopo dalla morte del cane Buck che la accompagna in un estremo saluto. La protagonista vive un profondo smarrimento: “si sentiva come un sacchetto vuoto in balia del vento, che sembrava parlarle.

A poco a poco si rende conto che ognuno di noi è il risultato inconsapevole dei nostri genitori e antenati e quando scopre il diario di sua madre e legge le sue parole:”Libertà è il verbo degli anni a venire”, comincia a provare pena per sua madre e per quel bambino rifiutato. La donna le chiede perdono, perché si rendeva conto di “essere nata per vivere in un vicolo cieco” e affiorano i ricordi di sua madre che dormiva sempre persa nel labirinto del suo mondo e diviene consapevole che per lei “accettare il suo ruolo e morire era stata un’unica cosa”.

La protagonista inizia un difficile percorso interiore che la porta a conoscere suo padre, anche se lei desidera solo “uno sguardo che la risponda”. Lo squallore e la complessità dei suoi ragionamenti in cui si perde, la richiesta velata di incontrarla le creano un senso di disagio e di paura, perchè “le parole sono le tracce che lasciamo dietro di noi” e ognuno di noi ha una sua storia solo sua.

Il viaggio ad Haifa in Israele, per cercare il suo unico parente, è il tentativo di riannodare l’unico filo, per quanto slabbrato, che la lega alla sua famiglia, tornando  in un certo senso alle sue radici. I racconti di quel vecchio, ormai stanco, che vive nella nostalgia di un passato pieno di armonia, si è dedicato poi alla cura degli alberi, consapevole dell’importanza “di prendersi cura di ciò che è piccolo”. La morte di suo padre, solo e abbandonato, dopo aver fatto un ultimo tentativo  di chiamarla, la lascia sbigottita, soprattutto, quando legge le parole della sua ultima lettera: ”tu sei stata l’insperato della mia vita”.

Alla fine fa entrare la luce nella stanza per ripulirla dall’amarezza e riesce finalmente a riconciliarsi col proprio io, quello che si è cercato disperatamente, senza mai trovarlo, quell’io, diviso tra tristezza e incoerenza che ha bisogno solo di essere compreso e preso per mano.

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