La filiera industriale 4.0

È  singolare come il dibattito politico di questi giorni sia concentrato indirettamente molto sul controllo della leva finanziaria europea ormai affidata alle autonomie locali, ma si discuta poco o niente di come impiegare quelle ingenti risorse, una volta intercettate. La crisi al Comune capoluogo, il risiko dei gruppi di azione locale (sconosciuti ai non addetti ai lavori della politica e della comunicazione fino a un mese fa), gli enti di servizio, dall’acqua, all’energia ai rifiuti fino all’industria. Ecco, proprio a quest’ultimo riguardo, mentre nell’indifferenza generale il Consorzio Asi vara un piano di dismissioni per garantire una prospettiva ad un ente che vuol recuperare slancio per programmare, il dibattito presta scarsa attenzione al confronto che appassiona gli imprenditori irpini, campani e italiani su una ritrovata vocazione industriale dell’Europa.

UNA PIATTAFORMA PRODUTTIVA DA RECUPERARE. Dopo aver costituito una speranza tra le macerie del terremoto 37 anni fa, una nuova generazione di fabbriche (innovative, in parte immateriali, di sicuro digitali e interconnesse) si affaccia sulla scena del Vecchio Continente, offrendo la base per una nuova rivoluzione industriale, la quarta. In una provincia a cui non fanno difetto né le eccellenze in campo informatico, né una vocazione acquisita al manifetturiero, il tema dovrebbe stimolare una riflessione. Dopo aver buttato vent’anni ad inaugurare ipermercati e catene di store e outlet d’ogni genere, dopo aver sostituito in casa e in ufficio qualsiasi prodotto nazionale o comunitario con versioni economiche made in Cina, l’Europa che voleva consumare ma non produrre, spendere ma non lavorare, ha scoperto che il mondo (un tempo povero) è andato da un’altra parte (e oggi compra gli asset migliori del Vecchio Continente) in un futuro già manifesto. Il nuovo ordine sta già prendendo forma. Confindustria e il governo lo hanno illustrato pochi giorni fa e la legge di stabilità 2017 ne conterrà già le prime conseguenze. Tutto è nato pochi mesi fa a Roma. «La crisi economica e finanziaria degli ultimi anni ha fatto emergere con forza la debolezza di economie eccessivamente finanziarizzate e politiche economiche sempre meno attente allo sviluppo dell’economia reale», ha dichiarato nel marzo scorso in un’audizione alla Camera dei Deputati Andrea Bianchi, Direttore dell’Area Politiche industriali di Confindustria. «Già a partire dal 2005, e con maggior forza in concomitanza con lo scoppio della crisi, i governi delle principali economie industrializzate, il mondo accademico e la stessa società civile hanno ripreso un dibattito ormai considerato obsoleto sulla politica industriale», ha proseguito. Mentre in Italia, sull’onda della linea di Bruxelles, in questi ultimi vent’anni si è puntato sull’economia finanziaria e i servizi, snobbando ricerca e produzione, al proprio interno e per conto proprio “Francia, Germania, Olanda, Stati Uniti, Cina (per citare i principali) hanno elaborato, sin dal 2007, policy di lungo periodo, con orizzonti tra il 2030 e il 2050, per il rilancio del manifatturiero”, ha spiegato Bianchi. Il punto è che ciascuno di quei Paesi, pur avendo operato singolarmente, ha fatto la stessa cosa. Seppure scaturiti da basi e orientamenti produttivi differenti, i piani elaborati da ciascun Paese «hanno come matrice comune una profonda integrazione tra ricerca, innovazione e produzione industriale». Sviluppo tecnologico, ricerca di base e “qualità” sono «i fattori essenziali per consentire alle economie più mature e sviluppate di mantenere ruoli di leadership competitiva su scala globale». Al solito i tedeschi hanno aperto la strada e oggi fanno scuola. Il nostro governo ha presentato pochi giorni fa il piano Industria 4.0 alla platea degli imprenditori riuniti al forum Ambrosetti.

LA STRATEGIA NAZIONALE. Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, propone una strategia di sostegno e stimolo per rilanciare il tessuto produttivo, facendo leva sulla componente tecnologica. L’obiettivo è replicare e attuare in Italia (e nel Mezzogiorno…) l’High Tech Strategy che la Germania ha elaborato tra il 2007 e il 2010 (cioé quasi dieci anni fa), oppure la Smart Industry olandese, l’Industrie du Futur francese o l’Advanced Manufacturing statunitense. «In questo documento nasce e si sviluppa il concetto di Industria 4.0, intesa come trasformazione ed evoluzione digitale della manifattura». Non si tratta di una più potenziale modalità per automatizzare la produzione industriale, come ha sottolineato Confindustria intervenendo alla Camera, c’è molto di più. Si va affermando la visione radicale di una società completamente diversa dall’attuale. L’Industria 4.0 annullerà le distanze e i tempi di produzione, trasporto, acquisto, arrivando a far coincidere domanda ed offerta in un click. Cambieranno «le relazioni tra capitale umano e impresa, tra uomo e macchina», scrive Bianchi. «Ogni cambiamento radicale del paradigma industriale, dall’800 in poi, ha sempre avuto impatti significativi non solo sul tessuto produttivo, ma anche sull’economia e sulle dinamiche della stessa società civile». Sarà così ancor di più questa volta. Sul tappeto non è stata messa un’idea dalla quale partire per sviluppare una innovazione tecnologica, ma è il contrario: impresa, analisti, politici, si sono messi al lavoro in ogni angolo dell’Occidente per scoprire come utilizzare una tecnologia che è già disponibile, facendola entrare nel ciclo produttivo, commerciale e sociale. Per i prossimi quindici anni la partita sarà rimodellare la società su questo.

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