“Quel luogo a me proibito” di Elisa Ruotolo

Scavare dentro di sé per scoprire le ombre che si annidano tra le pieghe di un’anima inconsapevolmente tormentata: questo è il tema attraverso cui si snoda la storia della protagonista in questo romanzo

“Quel luogo a me proibito” di Elisa Ruotolo. Scavare dentro di sé per scoprire le ombre che si annidano tra le pieghe di un’anima tormentata, tuttavia inconsapevole del proprio travaglio interiore: questo è il tema attraverso cui si snoda la storia della protagonista del romanzo, che in prima persona ricalca le tracce di un percorso difficile, a volte disperato, ma necessario per un cambiamento radicale della propria esistenza.

“Quel luogo a me proibito” di Elisa Ruotolo

Durante tutto il corso della sua vita, ogni cosa che la riguardava era stata eternamente condivisa: l’elemento imprescindibile che caratterizzava la sua vita era un sentimento profondo di vergogna, sempre presente, celata negli angoli del cuore, lei si sentiva come qualcosa di informe, di “non nato”, non “abitava” certe storie di famiglia, le sentiva lontane. Attraverso i racconti di sua madre, sapeva che sua nonna non l’aveva amata, né sostenuta, solo il suo maestro di scuola credeva in lei e avrebbe voluto che continuasse gli studi, ma lei non volle e la mandò a lavorare in un laboratorio di sartoria, ma restava sempre in sua madre il senso di una mancanza e una cupezza e la “vergogna di esserci”: infatti per lei sceglieva colori smorti e si vestiva come infagottata in abiti informi. Nella concezione della sua famiglia, il corpo era “un animale da tenere a bada o a catena come un cane” e questa idea era stata trasmessa anche a lei che avvertiva interiormente, come sua madre,  il dramma di indossare indumenti sacrificando la propria femminilità, non poteva scoprirsi senza sentirsi volgare, colpevole di essere guardata. Si sentiva incastrata in una gabbia di regole e dettami: “resta nel solco, rimani antica, sii perbene, il mondo è sporco”. Profondo era il suo senso del dovere e la responsabilità del tener conto degli impegni dei suoi genitori e di tutto ciò che succedeva  – “ogni febbre degli altri era roba mia”. La famiglia era “una continua chiamata in causa dell’altro, un sostenersi che diventava peso”: lei soffriva per l’atteggiamento dei suoi genitori che avevano bisogno dei figli per smorzare i loro contrasti, essi diventavano il rimedio ai loro silenzi, smorzavano le tensioni. Sembravano appartenere a due mondi diversi e contrastanti tra loro, esisteva un “buco” nelle loro vite che nessuno poteva conoscere. Suo padre considerava la propria condotta giusta, ascoltava le notizie del telegiornale, ma non i discorsi dei suoi figli: sintomatico è l’episodio in cui accoglie la loro richiesta di avere un cagnolino, ma lo costringe per anni a stare sul terrazzo, una sottile crudeltà. Nella sua famiglia sembrava che ognuno prendesse anche il bagaglio di chi l’aveva preceduto e che l’avrebbe accompagnata sempre. Suo padre non ammetteva schiamazzi in casa e volle i suoi figli “vecchi da subito”, mostrando per loro un affetto tiepido e al contempo l’ansia che faceva salire la tensione sempre presente: ella sentiva una profonda indifferenza, “braccia inerti che non la prendevano” , si sentiva colpevole di qualcosa e cominciò a farsi del male, per punirsi, a volte lo faceva inavvertitamente. Provava il desiderio di fuga a Napoli per vedere il mare, era l’occasione di aprirsi a nuove prospettive, avvertiva le “minacce della fantasia” e la curiosità a volte morbosa del proibito, non riusciva a pensare di potercela fare ad andare avanti o a tornare indietro. L’incontro con Nicla l’aveva profondamente turbata e per lei la sua storia sarebbe sempre rimasta “un teorema oscuro”: era totalmente diversa da lei, andava male a scuola e parlava in dialetto, ma a tredici anni era stata spinta nel mondo degli adulti e, a differenza sua, preferiva scegliere da sola, aveva “la fissità istintiva dell’animale”. Al contrario lei aveva sempre avuto difficoltà a desiderare e aveva dato al suo bisogno un perimetro entro cui restare, teneva a bada ogni millimetro della sua emotività. Improvvisamente nella sua vita irrompe una sorta di terremoto interiore, rappresentato dalla figura di Andrea che la sconvolge con la sua passione attraverso l’infrangersi di ogni regola: il suo corpo bruciava, diventava invasione e calore, le faceva scoprire la fame e il desiderio, ma soprattutto lo smarrimento: aveva 42 anni, ma per lei era stato sempre difficile lasciarsi andare e comincia a servirsi di ogni bugia come un’adolescente. “Cosa vuoi veramente?”: quella domanda aveva fatto scaturire il dolore della trasformazione, perché a  poco a poco comprendeva che l’amore era una vulnerabilità più grande. Tutto in lei si stava trasformando irrimediabilmente e “ l’infernale giovinezza” che non aveva mai avuto la aspettava, cercavano angoli di strada dimenticati dalla gente. Si era sempre sentita una “donna bonsai” , con le radici strettamente legate alla ciotola fino al prossimo invaso, alla perenne ricerca di sicurezza e tormentata dalla paura. Era sempre in allarme e sulla difensiva, non si fidava di lui, ma forse solo lui capiva quale guerra lei stava combattendo, “smontava i pezzi, apriva le porte”, le chiedeva di vivere il presente perché non ne avrebbero avuto in eterno e dimenticare ciò che erano per gli altri. Andrea aveva avuto una vita completamente diversa ed era andato a lavorare a sedici anni, ma lei lo giudicava negativamente, avvertiva in lui una sorta di “oscuro impulso umano”, da cui tuttavia si sentiva attratta, ma aveva paura di sperimentare sensazioni crude che non riusciva ad accettare: il suo corpo era stato un abito appeso in attesa del momento giusto. L’androne carico di ombre diventa il varco per superare quel limite, accetta di far parte di quel nero e di liberarsi dalla proibizione e dalle paure di cui era serva, per giungere finalmente al “luogo proibito, uno spazio senza pareti, eppure chiuso, irto di spigoli” ed avere la responsabilità e consapevolezza del piacere. L’allontanamento di Andrea che non la cerca più la fa piombare in uno stato di malessere interiore: le mancava l’inferno di dettagli, odori e sensazioni e la “bestia che dormiva dentro di lei” la ritrovava in frantumi nei corpi di altri uomini che le passavano accanto. Avrebbe desiderato perdersi, quando da bambina voleva lanciarsi dal balcone, attraversare un corpo sconosciuto, come l’attenzione di Andrea che scongiurava la sua invisibilità. Dopo molti anni ritrova Nicla e suo figlio Salvatore, ormai diventato grande, le racconta tutto, facendola entrare nel suo inferno privato e mostrando la sua fragilità. Le sue parole: “non è la catena che rende prigionieri, ma il modo in cui la si indossa” la fa riflettere e lei comprende che nella sua vita aveva sempre seguito indicazioni, ma in realtà aveva bisogno di vie secondarie. Non può dimenticare ciò che accaduto, né può tornare indietro, ma deve espiare la colpa di una vita che non è mai stata completamente sua.

A cura di Ilde Rampino


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