Un classico per amico. Il Processo di Franz Kafka

Un classico da riscoprire, un libro per ripensare la modernitá del rapporto tra sistema e umanità

Recensione di Ilde Rampino

Un arresto improvviso quanto inaspettato del procuratore K.,l’incapacità e l’impossibilità di reagire ad un evento fortuito, sentirsi soggetto ad un’autorità che non conosceva: una situazione surreale, immersa in un’atmosfera rarefatta, densa di tensione e interrogativi. Il protagonista, stretto nelle maglie di una limitazione della propria libertà, che in realtà è solo apparente può comportarsi in un certo senso come se tutto fosse normale, anche se ha sul suo capo una”spada di Damocle” che lo fa sentire a disagio. Non se ne spiega il motivo, ma è una decisione irrevocabile, perché gli viene detto che in quel tribunale ”errori non ne avvengono” e che “in questo tribunale non ci si può difendere, è necessario confessare”.

I custodi, tra cui si distingue Franz, il più umano – e qui la corrispondenza trai nomi utilizzati rivela una pregnanza fondamentale – gli permettono di andare al lavoro in banca accompagnato dai suoi collaboratori, perché il suo arresto “non come un ladro, ma qualcosa da eruditi” lo pone su un piano diverso rispetto agli altri. Infatti il suo processo avverrà di domenica, per non fargli perdere giorni di lavoro. Il protagonista, K. si trova a vivere una situazione assurda, totalmente diversa dalle altre volte, in cui era “presente a se stesso”, perciò in grado di reagire agli imprevisti e cerca di avere un colloquio con la signorina che abita nella stanza accanto alla sua per condividere la sua situazione. La tensione palpabile si rivela anche nei luoghi, in quel tribunale, composto di posti tra i più diversi, come la cancelleria o la sala delle udienze, in un quartiere popolare e fatiscente, lontano e molto diverso dal suo solito ambiente ed egli chiede notizie del falegname Lanz, per non rilevare i veri motivi della sua presenza lì. Evidente e significativo è il contrasto tra il senso dell’autorità e i luoghi degradati in cui essa viene esercitata.

K. non è solo, ma condivide l’attesa della sua condanna con altre persone accusate, in atteggiamento sottomesso ed egli si sente alla mercè del giudizio degli altri, perfetti sconosciuti che lo osservano ma non parlano, come se vedessero la realtà degli altri senza poter intervenire a favore o a sfavore dell’accusato. K. non può fare a meno di accettare l’offerta di aiuto da parte della donna, che utilizza il suo potere di seduzione per ottenere favori, mentre il marito sa di essere costretto ad accettare quella umiliazione.

L’avvocato gli chiede se sia un pittore decoratore ed egli gli risponde in modo brusco e lo accusa di avere alle spalle la presenza di una grande organizzazione che ha lo scopo di far arrestare persone innocenti e appropriarsi dei loro beni. E’una chiara accusa dell’autore contro la corruzione dilagante, in cui ognuno cerca di accaparrarsi qualcosa, mentre evidente è l’alterigia dei funzionari, che stendono relazioni lunghe e particolareggiate su di lui e sono sostenuti da un potere oscuro che li protegge. Particolari sono i personaggi dei “bastonatori” dei custodi a causa delle denunce, che essi ricevono dagli accusati. K. si sente male e quando il giorno dopo rientra in ufficio, tutto è al posto di prima: una realtà che non cambia, che si ferma ad un momento topico.

K. è tranquillo, quasi rassegnato al suo destino e distaccato dalla situazione, finchè giunge l’intervento dello zio, proprietario terriero, che lo porta da un avvocato dei poveri, che sostiene che gli avvocati della difesa sono trattati male e “l’unica via giusta è quella di accettare le condizioni esistenti”. Lo zio rimprovera K. per il suo scarso coinvolgimento, ma egli vorrebbe licenziare l’avvocato e scrivere la propria comparsa, perché non c’era una colpa per cui essere condannato. Un altro personaggio indistinto è il pittore che dipinge la Giustizia, confidente del tribunale, che gli chiede se sia innocente e gli propone una ”assoluzione apparente” che verrà presentata ai vari giudici, sostenendo che una norma per l’accusato è di sentirsi sempre pronto.

La presenza di personaggi concreti che agiscono in situazioni astratte rendono la realtà inafferrabile, come nel caso del sacerdote, che, incontrando K. nel duomo, lo chiama per nome e gli svela di essere il cappellano delle carceri: lo rimprovera “di cercare troppi aiuti dagli altri”, affermando l’inutilità di resistere alle accuse: infatti, poco dopo lo verranno a prendere fino all’estrema conclusione.

 

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