Persi in Irpinia 4 allevamenti su 5. Si punta su capi selezionati: ecco il vitellone bianco Igp

Il settore della zootecnia tenta la ripresa dopo la crisi degli ultimi due decenni. Il 27 marzo il gal "I sentieri del buon vivere" presenta un progetto di sostegno alle imprese che intendono puntare su innovazione e qualità

Persi in Irpinia 4 allevamenti su 5 negli ultimi 20 anni. Per rilanciare il settore si punta su capi selezionati: ecco il vitellone bianco Igp, una nuova sfida per la zootecnia in Irpinia.

La certificazione del prodotto e l’assegnazione di una etichetta di qualità sono il solo scudo a disposizione degli allevatori, indeboliti dalla concorrenza del mercato estero e dalle procedure burocratiche previste per la richiesta dei finanziamenti europei.

Il prossimo 25 marzo a Colliano, il Gal “I sentieri del buon vivere” promuove l’adozione nelle province di Avellino e Salerno del marchio Igp per il vitellone bianco, corrispondente alla razza chianina marchigiana romagnola. La denominazione è già presente nel beneventano ed è riscontrabile in tutte le aree interne del Paese.

L’obiettivo è la valorizzazione dell’intera filiera produttiva e un miglior margine di guadagno per l’allevatore. Nel beneventano il vitellone bianco viene distribuito nelle mense scolastiche e rappresenta un prodotto di alta gamma nel commercio al dettaglio. Valorizzare la carne italiana e dunque locale, è l’obiettivo finale dell’assegnazione dell’Indicazione Geografica Protetta a quel tipo di carne, che rispetto alle altre razze estere (oggi presente sulle nostre tavole) viene considerata tardiva: l’accrescimento è più veloce, e si arriva prima alla macellazione rispetto a quella italiana.

LO SCENARIO IN IRPINIA. L’iniziativa serve a rilanciare sul mercato la produzione locale di carne di qualità. Se c’è un problema di prezzi per il latte, pagato all’allevatore dai 30 ai 40 centesimi, per la vendita delle carni non va meglio. Tutto il comparto della zootecnia sembra registrare gravi perdite. I costi di produzione di carne e latte non bastano a coprire le spese e il guadagno è dimezzato. La concorrenza dall’estero incide negativamente sul valore del prodotto autoctono. Vale per le carni di manzo, per quella di coniglio e anche per quella di maiale.  Gli allevatori non rientrano dai costi di produzione. La carcassa pulita viene pagata circa 4 euro e 80 centesimi al chilo in Irpinia, ma prima di fare il calcolo complessivo del guadagno di un vitello, bisogna considerare che in vita mangia l’equivalente di 5 euro al giorno. Questi numeri bastano a spiegare perchè il numero delle aziende è sceso così drasticamente.

IL CONFRONTO TRA PRODOTTO ITALIANO ED ESTERO. Gli operatori del settore rilevano che il consumatore chiede la carne tenera, che però costa di più. La carne italiana ha elevate proprietà nutritive, viene consigliata per i cardiopatici e aiuta chi ha altre patologie. Ma produrla richiede maggiori costi agli allevatori italiani. Anche i tempi per la macellazione sono differenti: 16 mesi per il vitellone di razza estera e 18/22 mesi per la razza italiana.  La carne proveniente dall’estero presenta grasso nelle fibre muscolari, mentre i vitelli italiani hanno uno strato di grasso soltanto ‘di copertura’, tale da rendere necessaria la frollatura per renderla tenera (altro processo produttivo e dilatazione dei tempi). Nel confronto, dunque, il prodotto italiano offre maggiore qualità, ma sconta prezzi di produzione più elevati. Per l’allevatore è sempre più difficile sostenere la concorrenza esterna che offre prezzi bassi per una qualità inferiore. Il disvorso non varia per le altre tipologie di prodotto. L’allevamento di conigli sembra avere un maggiore radicamento nel beneventano: qui il mercato varia dai 90 centesimi al chilo fino a 1 euro e 30. Allevamenti di maiali invece sono presenti nell’avellinese, nel beneventano e nel salernitano. Il problema maggiore è quello del costo di produzione che non riesce a sostenere la concorrenza estera, da dove arrivano maiali già puliti e pronti per la macelleria o i salumi a 80 centesimi al chilo. In provincia di Avellino non si può competere con questi prezzi. Un vitellone vivo all’uscita della stalla e disposto sulla bilancia, nelle aziende agricole della provincia viene pagato a 2 euro e 50 centesimi al chilo. La carcassa pulita invece non più di 4 euro e 80 al chilo. Stesso discorso per il latte: pagato sotto i 40 centesimi al litro, vale meno di un litro d’acqua, ma anche in questo caso, per produrre almeno 25/30 litri al giorno, una mucca deve avere mangiato almeno 5 euro di fieno, foraggio e altri alimenti.

Il latte è una delle risorse eccellenti italiane oggi al centro di una vertenza nazionale

IL CASO LATTE. Sul latte  gravano i costi del trasporto. Sono rimasti pochissimi raccoglitori in giro per le imprese agricole irpine, in quanto il numero ridotto di aziende e la dispersione territoriale alzano il costo del trasporto che viene addebitato a carico dei produttori. La raccolta spesso non viene pagata a cadenza mensile e molti allevatori avanzano crediti accumulati fino a 8 mesi. Questo significa che non possono pagare i veterinari, nè il mangime per gli animali. Come un cane che si morde la coda insomma.

Gli uffici della Regione Campania ad Avellino

L’APPELLO ALLE ISTITUZIONI PREPOSTE: VALORIZZARE LA QUALITÀ. L’evoluzione della catena commerciale prevede che nessuna macelleria compri gli animali, li trasferisca al macello e poi ricavi i singoli ‘pezzi’ per la vendita al dettaglio. Si comprano i tagli muscolari sotto vuoto, a seconda dell’andamento del mercato e della domanda. Come se fosse Amazon. Da più parti emerge la richiesta alla politica di intervenire nella maniera adeguata e di proteggere la qualità delle produzioni locali, e di certificare quanto più è possibile per impedire che lo scambio commerciale assuma le dimensioni di una sopraffazione. Quello dell’agricoltura al pari della zootecnia è un comparto determinante per l’economia irpina e per la Campania interna. Si auspica ad un ritorno alla vecchia pratica, con allevamenti di piccole e medie dimensioni, che escludono gli allevamenti intensivi. Ma il libero mercato e il commercio non lasciano margini di scelta, se non il confinamento di una nicchia di produzione, dove sarebbe pure possibile la cooperazione, ma qui il territorio non è maturo.


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