Giuseppe De Mita

«Avellino può essere un laboratorio politico di costruzione di una nuovo campo democratico. C’è bisogno però di modelli partecipativi che coinvolgano la Città. Fortunatamente il fatto nuovo è proprio questo: si avverte un’attenzione pubblica che finora era sopita». E’ quanto sostiene il dirigente dei Popolari, Giuseppe De Mita, già parlamentare dell’Udc.

Il percorso però comincia non senza difficoltà e confusione.

«Inizia la salita, non poteva essere diversamente. Non ci troveremmo in questa situazione se non ci fossero a monte dei problemi da risolvere. Ma c’è un fatto nuovo, che non va sottovalutato, che ci indica la direzione verso la quale procedere, al di là delle distorsioni interpretative di chi è abituato e continua a guardare gli avvenimenti come se fosse davanti al buco della serratura. Il punto di partenza è l’iniziativa del Pd».

Dica pure…

Leo Annunziata, segretario del Partito Democratico in Campania

«Mi sembra che non si voglia o non si riesca a leggere con lucidità ciò che è successo, presi dal timore di dover mantenere ruoli o percorsi prefissati. L’assemblea di mercoledì nasce da un’idea e da un invito del Pd, lanciate dal neosegretario regionale, Annunziata, che ha detto cose non scontate e non prevedibili, che sono state raccolte dall’associazione Controvento. Avellino, unico capoluogo campano dove si vota, si presta ad essere un laboratorio. Questa è una sfida per il Pd, che la sta affrontando con fatica. Senza le primarie, il livello di partecipazione registrato ed il tipo di messaggio inviato dagli elettori, non si sarebbe potuto creare il clima giusto ed il livello di attenzione che stiamo vedendo, necessari per avviare un nuovo percorso. Ma quella in atto è anche e soprattutto una sfida per la democrazia e per i soggetti che si riconoscono, pur da posizioni diverse, in un determinato orizzonte».

Come si spiegano, dunque, le polemiche ed i timori di questi giorni?

«E’ singolare che tutti quelli che hanno affossato il partito chiedono che il Pd si muova, ignorando che è già stato compiuto un primo passo e proprio dal vertice democratico della Campania. Probabilmente quanto sta accadendo non coincide con i propri interessi. Qualcuno spera che il segretario regionale si rassegni e lasci stare le cose come stanno a via Tagliamento, tornandosene sulla costa, da dove proviene. Mentre si presenta l’opportunità di dare vita ad un processo importante e lungimirante, c’è chi preferisce alimentare le solite beghe per lasciare inalterati equilibri ed obiettivi personali di piccolo cabotaggio».

Quali opportunità ha di fronte il centrosinistra?

«La rigenerazione di un’area democratica. Una questione che non riguarda un solo partito. Non bisogna aver paura di affrontare un nodo complicato e trasformare tutto in vicende di cortile. Si è prodotto un fatto: c’è un primo appuntamento che si muove in quella direzione, sicuramente non l’unico e non l’ultimo, attraverso il quale è possibile recuperare la partecipazione delle persone, che alla luce di quanto abbiamo visto fino ad oggi, anche alle scorse elezioni, non era affatto scontato. Da parte di qualcuno, invece, si sta riducendo l’avvio del confronto in un fatto formalistico. La discussione riguarda la Città ed i problemi concreti del territorio. Non vorrei che Avellino scomparisse dal nostro sguardo e ci si concentrasse unicamente sulla definizione delle candidature. La sfida va raccolta, altrimenti rischiamo tutti».

Che cosa è necessario fare per cogliere la sfida di cui parla?

«L’unica strada percorribile è quella della partecipazione. Occorre un sentimento di rinnamoramento degli avellinesi per la propria città. Non si può più restare a guardare, mentre tutto va in rovina, tra insulti, veleni e finti Prometeo o presunti Salvatori della Patria, che ancora pensano di poter giocare le proprie partite. Il confronto deve avvenire alla luce del sole, fuori dalle solite stanze e dai soliti meccanismi».

Qual è l’orizzonte politico che si prospetta?

«Il centrosinistra è una formula politica superata, ma non vorrei andare alla ricerca di una definizione diversa, strozzando la novità. Considerato tutto quello che c’è dall’altra parte, la peggiore destra novecentesca, in fin dei conti appare persino scontato chiamare “centrosinistra” l’equilibrio politico verso il quale andiamo. Di fronte a noi però sta fiorendo un campo nuovo, democratico, non di difesa, ma di rigenerazione. In questi anni purtroppo abbiamo assistito senza reagire ad una involuzione della democrazia, trasformata in mera burocrazia, senza alcun fondamento ideale. Invece, va rimessa al centro la tutela delle persone. Questo può avvenire soltanto con la costruzione di un campo politico ampio. E’ un ragionamento che vale sul piano generale e sul piano locale».

Come immagina possa prendere corpo questo nuovo campo democratico?

«La politica non può essere ridotta ad una ragioneria da sondaggi elettorali. Nemmeno il Pd riesce ad andare oltre una certa soglia di consenso. Nessun partito può avere una “tensione maggioritaria”. E’ una torsione dell’intelligenza. Immagino, quindi, che ogni area si organizzi prima in maniera autonoma e poi costruisca un’alleanza con altre forze democratiche. In questa dinamica i cattolici democratici possono recuperare un ruolo e dare un contributo importante».

Avellino in che modo può trasformarsi in un campo di sperimentazione di nuovi progetti politici?

«E’ una realtà dove esiste un’esperienza popolare consolidata e nella quale, tra l’altro, lo scorso anno si è vista concretamente all’opera, con tutti i suoi limiti, un’amministrazione Cinque Stelle. Ci sono quindi le condizioni per recuperare le relazioni tra le diverse aree democratiche. Ma non possiamo concentrarci solo sui problemi di classe dirigente e nemmeno esclusivamente sugli aspetti programmatici. Sullo sfondo c’è un risvolto politico enorme. Il centrosinistra fino al 2008 ha avuto una spinta politica ed amministrativa. Nonostante le difficoltà e le frizioni registrate, oggi non ricordiamo più i dettagli degli scontri di quella fase, perché la dialettica ha testimoniato soprattutto che Avellino era viva e dinamica. Insomma, non ci siamo lasciati con il coltello tra i denti».

Il palazzo degli uffici in piazza del Popolo, sede della amministrazione comunale di Avellino

Come si può determinare un coinvolgimento attivo dei cittadini in questo processo?

«Vanno inventati modi nuovi. La gente ha molta più voglia di partecipazione di quanto si possa credere. Se alle persone offri il modello Meet Up, poi otterrai i circoletti. Se ci si limita al voto delle primarie, dopo la consultazione si torna al ruolo di malinconico spettatore degli avvenimenti. Serve una discussione pubblica, che di fatto si è già avviata, che coinvolga tutta la Città, anche chi non è di questa idea politica, perché in ballo è il futuro di Avellino, oltre alla possibilità di sperimentare nuove pratiche democratiche».

Non mancano, come si diceva, resistenze e tentativi di irreggimentare il percorso, così come c’è una legittima esigenza di recuperare il ruolo dei partiti nelle dinamiche democratiche.

«La politica è diventata purtroppo la proiezione di una società che si imbarbarisce. Il riscatto non passa attraverso atteggiamenti cattedratici. Servono umiltà ed autocritica. La paura ci ha portato al 4 marzo 2018. Dobbiamo trovare un nuovo modo di relazionarci al potere, prima che crolli del tutto. Non si può costruire una coalizione che parli politichese, né appiattirci su un accordo soltanto programmatico, sul modello Lega-Cinque Stelle. Va costruita un’intesa politico-amministrativa in quattro o cinque punti, che diano una precisa ed immediata rappresentazione del progetto e della prospettiva a cui si intende dare vita».

Quali sono le priorità del capoluogo?  

«La Città non ha bisogno di strade, ma di ritrovare umanità. Dobbiamo dare ragioni di vita ad un luogo che oggi viene percepito come un luogo in cui abitiamo soltanto. Ciò che serve, dunque, non è soltanto uno sforzo di intelligenza o di preparazione, ma di dialogo. Altrimenti non se ne viene fuori. Si perde comunque. Non è un caso che il Pd si riferisca alle esperienze amministrative passate, al di là se elettoralmente vincenti o perdenti, come modelli da superare. Pur nella diversità, avevano tutte in sé il segno della sconfitta».


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